Processare il Giusto ( il caso Gesù)

Con l’espressione giusto processo si intende  quel complesso ideale di regole la cui osservanza dovrebbe assicurare il raggiungimento degli scopi di giustizia e verità cui è orientata ogni esperienza processuale.  Eppure, sin dagli albori, la storia della civiltà ci ha consegnato vicende in cui la stretta osservanza delle regole non  ha garantito un processo giusto.

In tali vicende il rapporto tra diritto e potere, giustizia e politica ha generato conflitti in cui la coscienza dei singoli è stata costretta a scontrarsi con la ragione di stato, le esigenze della comunità,  i progetti individuali, le prerogative di libertà ed i dogmi della politica.  

In taluni casi, particolarmente significativi sul piano storico ( Socrate, Galileo, Cristo) il Giudice ha giudicato colpevole l’imputato, ed inflitto al medesimo una condanna pur avendo raggiunto un convincimento contrario.

Il “caso Gesù”, sopra ogni altro, costituisce un precedente esemplare.

All’alba del Venerdì, una volta concluso il processo religioso, Gesù fu condotto, per ordine dei membri del sinedrio, innanzi a Pilato. Doveva essere giudicato, condannato e crocifisso in quella stessa mattinata. I giudei intendevano evitare che il processo fosse rinviato per il sopravvenire del Sabato e della Pasqua ebraica.

I membri del sinedrio, all’esito di un processo religioso,  avevano già giudicato Gesù reo di morte, ritenendolo colpevole di blasfemia e di bestemmia. Allorquando il sommo sacerdote, Caifa, lo interrogò, ponendogli provocatoriamente la domanda: “tu sei il messia, il figlio del Benedetto?” ( Mc 14,61), Gesù rispose “Si sono io. E vedrete il figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza, venire sulle nubi” ( Mc. 14,62).0

Per il sommo sacerdote tale risposta costituiva flagranza di bestemmia. Fu allora che  teatralmente si strappò le vesti, osservando: “Di quale testimonianza abbiamo ancora bisogno. Avete sentito la bestemmia, che ve ne pare? Tutti lo giudicarono reo di morte (Mc. 14, 63-64).

Eppure era evidente il contrario: Cristo non si era affatto reso autore di bestemmia.  Proclamarsi Messia non era atto offensivo verso Dio. Vero è che il delitto religioso di bestemmia non era mai stato, fino ad allora, contestato a quelli che, nel tempo, avevano rivendicato il titolo di messia.

La rivendicazione di messia non implicava alcuna profanazione in quanto la bestemmia, intesa come offesa alla maestà divina, si aveva solo quando qualcuno osava maledire Jhavè.

Il Gran Sinedrio, pur avendo una giurisdizione piena sui delitti religiosi, non emise alcuna formale sentenza di condanna. E comunque non avrebbe avuto il potere di farla eseguire se non fosse stata validata dall’autorità politica. Il delitto religioso – di cui Cristo era stato ritenuto colpevole dal Sinedrio – pertanto, sarebbe rimasto privo di sanzione, se i sinedriti, traducendo Gesù innanzi al governatore Pilato, non avessero tentato di dimostrarne la colpevolezza anche per il delitto politico di sedizione, un delitto che, in quanto commesso contro l’autorità occupante, era punito con la morte per crocifissione.

Pilato, dopo averlo interrogato, si convinse però che Gesù, contrariamente a quanto affermato dal Sinedrio, non si era macchiato di alcuna colpa.

Il prefetto si rivolse infatti ai Giudei, dicendo: “Mi avete presentato quest’uomo come sobillatore del popolo. Ebbene, l’ho esaminato alla vostra presenza ma non ho trovato in lui alcuna delle colpe di cui l’accusate: e neppure Erode perché ce l’ha rimandato. Dunque egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò dopo averlo fatto frustrare lo lascerò libero” ( Lc 23, 13-16).

Nel tentativo di dare soddisfazione alle autorità religiose, Pilato ordinò comunque che Gesù, sebbene non colpevole, fosse flagellato per umiliarlo innanzi alla folla di giudei che si accalcava innanzi al Pretorio,  sobillata dai sommi sacerdoti.

Nonostante la flagellazione, le pressioni dei membri del Sinedrio, affinché Cristo fosse condannato a morte, aumentarono.

I sommi sacerdoti compresero però che l’accusa di sedizione non reggeva in quanto si pretendeva fondasse sulla rivendicazione messianica di Gesù, e sui contenuti della sua predicazione evangelica. La pretesa di regalità da parte di Cristo non accampava alcuna pretesa politica. Gesù lo aveva fatto intendere chiaramente affermando che il suo regno non era di questo mondo. Aveva fatto anche opportunamente rilevare che se la regalità avesse avuto aspirazioni di potere temporale

“le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei”  Mt, 27, 13-14

Pilato sin da subito, sul caso, non tacque tutta la sua perplessità

Quale  accusa portate contro quest’uomo Gv 18, 29

Gli risposero

Se non fosse un malfattore non te l’avremmo portato

Pilato disse loro

Prendetelo e giudicatelo secondo la vostra legge

I giudei risposero

A noi non è dato mettere a morte nessuno ( Gv 18, 29,31).

“Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio” ( Gv, 19, 7).

A questo punto va detto che, sebbene risultasse chiaro che la pretesa di regalità dal Gesù rivendicata in alcun modo attentava all’autorità di Roma, Cristo ebbe ad assumere innanzi a Pilato un atteggiamento di dignitosa reticenza.

Pilato infatti gli chiese : “Di dove sei tu? Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: non vuoi Parlarmi? Non sai che ho il potere di liberarti? E il potere di Crocifiggerti”?  (Gv. 19, 9-10).

Gesù allora espresse riserve sul potere rivendicato dal Governatore di disporre della sua vita affermando: “tu non avresti alcun potere su di me se non ti fosse stato dato dall’alto” (Gv, 19, 11).

Pilato restava convinto dell’innocenza di Gesù ma i sinedriti presero ad incalzarlo spostando il tiro, e paventarono di denunziare il governatore all’imperatore Tiberio ventilando l’infedeltà della sua condotta: “se tu liberi Costui non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re si oppone a Cesare” ( Gv. 19, 12).

E così i giudei, che avevano in odio Roma, intimarono a Pilato che proclamarsi “Re dei Giudei” equivaleva a ribellarsi a Roma.

Fu così che le preoccupazioni per la preservazione del potere raggiunto, e di fedeltà nei confronti dell’Imperatore, finirono per prevalere in Pilato sulle ragioni del diritto, della giustizia e della coscienza di giudizio.

Ed allora quando Cristo fu condotto fuori dal Pretorio, Pilato ne affidò il destino alla folla. Volendo rendere palese che la condanna, allora già decisa, veniva pronunziata per volontà dei giudei, pose loro la provocatoria domanda: Ecco il vostro re. Crocifiggerò il vostro re? ( GV 19, 14, 15).

Dalla folla risposero

Non abbiamo altro re che Cesare ( Gv. 19, 14).

Pilato incassava così la piena sottomissione dell’autorità ebraica all’autorità imperiale, lasciando che nella sua coscienza di Giudice capitolassero, insieme al suo convincimento, le ragioni di diritto verità e giustizia, ossia gi scopi indefettibili in mancanza dei quali ogni processo di trasforma in parodia, farsa o finzione scenica.

Prima del tramonto Gesù venne crocifisso, ed al sopraggiungere dell’ora nona spirò.

Ed in questa scelta il Prefetto consegnò alla storia la sua grandezza di uomo di potere e di uomo di stato, manifestando non comune fermezza nel essere sordo alle ragioni del diritto che alla sua coscienza di giudice erano manifeste.

Egli si era reso perfettamente conto che l’accusa di sedizione era inconsistente. In caso contrario, trattandosi di delitto che per configurarsi necessitava della partecipazioni di molti uomini, si sarebbe dovuto procedere all’arresto, già sul Getsmani, anche dei discepoli di Gesù.

Ma nella consapevolezza della innocenza di Gesù, il Giudice Pilato aveva compreso che la crocifissione di Cristo veniva invocata dall’autorità religiosa perché i contenuti rivoluzionari della sua predicazione non erano tollerati dalla classe dirigente locale.

Appare probabile pertanto che Pilato giudicò Cristo colpevole di contumacia, e non di sedizione.

Nel diritto romano era colpevole di contumacia l’imputato che non rispondeva alle domande del Giudice ( Digesto XI).  Gesù, di fronte alle domande reiterate di Pilato, mantenne un atteggiamento che si prestava ad essere censurato come reticente, e quindi contumace. La flagellazione, in tali casi, era la pena meno severa. Gesù, nonostante la flagellazione, perseverò in tale atteggiamento.

Conduce a tale conclusione anche la significativa circostanza che lo stesso giorno, Pilato concesse a Giuseppe d’Arimatea, un membro aristocratico del Sinedrio, il cadavere del crocifisso affinché ricevesse sepoltura.

Se il prefetto avesse giudicato Cristo colpevole di sedizione, alla richiesta di concessione del cadavere sarebbe stato opposto un netto rifiuto, come accadeva per i crimini di lesa maestà.

Il caso Gesù dimostra che il conflitto tra diritto e potere è destinato sovente a trovare compimento in un’ aula di giustizia.  Il giusto è destinato, per lo più  a perire, soccombendo, quale vittima sacrificale, alla preservazione di aspirazioni, posizioni personali ed equilibri di potere. La formalistica osservanza della regola processuale, in tali casi, si rivela inadeguata a rendere giusto il processo. In tali ipotesi occorre soprattutto il coraggio del Giusto Giudice che non deflette innanzi a quel che diritto e verità dettano alla sua coscienza. Il coraggio però non si trova nei codici, nelle sentenze o nelle leggi. E se un Giudice non ce l’ha, non se lo può dare.   La ragione per la quale Gesù tacque, innanzi alle pure insistenti domande del suo Giudice, era destinata a rimanere un segreto che portò fin dentro il sepolcro. La risposta la diede il terzo giorno, risorgendo.

Carmine Ippolito

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