La riforma della giustizia in Italia ha assunto una connotazione perpetua. Ne discettano, imperturbabili, come per effetto di una peculiare amnesia collettiva, ceto politico ed operatori del diritto da oltre un trentennio. Il disturbo, in neuropsichiatra, viene descritto come sindrome di Korsakoff che si manifesta come una particolare forma di amnesia che può causare una grave perdita di memoria, in particolare per gli eventi recenti. I ricordi degli eventi passati sembrano meno compromessi. Coloro che ne sono affetti possono quindi interagire socialmente e conversare senza ricordare ciò che è avvenuto nei giorni, mesi, anni o perfino nei minuti precedenti. Dal momento che non riescono a ricordare le cose che hanno fatto di recente, potrebbero non stancarsi mai di dire e ridire cose già dette oppure leggere e rileggere la loro rivista preferita, appena letta.

Era il 24 ottobre 1989 quando entrava in vigore nuovo il codice di procedura penale, detto Vassalli, dal nome dell’allora guardasigilli. Il codice contemplava un modulo processuale accusatorio che avrebbe dovuto garantire, soprattutto, la parità tra le parti innanzi ad un giudice terzo ed imparziale. Inarrestabili, da allora, si sono susseguiti, gli interventi del legislatore, della Corte costituzionale e di una giurisprudenza creativa, finalizzati a snellire e a rendere la giustizia più efficiente. Molti di tali interventi riformatori hanno finito per sovrapporre ad un processo concepito in chiave accusatoria – dove la prova è formata in dibattimento – istituti ispirati al modello ‘misto’, una sottospecie di quello inquisitorio, in cui il dibattimento è fortemente condizionato dagli esiti delle fasi anteriori.
Il modello accusatorio è un meccanismo molto precario, incline a degenerare non appena subisca qualche contaminazione con regole o principi che gli sono estranei. Il rito accusatorio, fondato sulla formazione della prova in dibattimento, non ha incontrato il gradimento di larga parte della magistratura, anche in quanto costretta a lavorare con organici sottodimensionati. Di talché le manipolazioni giurisprudenziali hanno fatto da battistrada a tutti gli interventi di riforma che da allora ad oggi sono stati varati.
Elementari criteri di psicoterapia rendono opportuno richiamare alla memoria collettiva l’abulìa riformatrice che ne è derivata. In ordine sparso: sentenze con le quali la Corte Costituzionale nel 1992 (nn. 24, 254, 255) dichiarò illegittime le regole di esclusione probatoria contenute negli artt. 195, 500 e 513 c.p.p. e che trasformarono il processo in un’esperienza peggio che inquisitoria; la legge 8 agosto 1995 n. 332 approvata per porre rimedio al tintinnar di manette durante tangentopoli e processi di mafia; la legge Simeone di riforma del codice di procedura penale ed ordinamento penitenziario in materia di esecuzione penale e misure alternative alla detenzione; il decreto legge n. 51 del 1998 che introduceva il Giudice Unico per molti reati fino ad allora a trattazione collegiale; le Leggi n. 479/199, legge 144/2000, 4/2001 in materia di modifica del giudizio abbreviato e introduttive dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari; La Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 che inseriva i principi del Giusto processo nella Costituzione, e la Legge 63/20 attuativa della legge costituzionale del giusto processo; Legge 13.12.2001 n. 45 in materia di collaboratori di giustizia; La legge n.134 del 2003 che ha modificato il codice di procedura penale introducendo il cosiddetto patteggiamento allargato; Legge 20 Giugno 2003 n. 140 in materia di processi penali nei confronti di alte cariche dello stato cui è conseguita la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’ultimo comma dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003 in materia di processi penali nei confronti di alte cariche dello stato; la legge 26 luglio 2005, n. 354 in materia di attenuanti generiche, di recidiva e di prescrizione, detta ex Cirielli perché il suo primo firmatari, dopo le modifiche apportate dal parlamento la sconfessò e votò contro; decreto legislativo 6.09.2011 n.159 G.U. 28.09.2011 introduttivo del testo coordinato delle leggi in materia di misure di prevenzione detto codice antimafia; legge Gelli Bianco n. 24 del 2017 in materia di responsabilità per colpa medica la legge 16 aprile 2015 n. 47 ancora in materia di modifiche alla disciplina delle misure cautelari; l. 23 giugno 2017, n. 103, detta Riforma Orlando, che ha introdotto notevoli modifiche sia di natura processuale che sostanziale in materia di prescrizione, offerta risarcitoria, inasprimento pene reato contro il patrimonio e che ha reintrodotto il concordato in appello che era stato abrogato dalla legge 24 luglio n. 2008 n. 92; Legge n. 3/2019 detta spazzacorrotti che ha, tra l’altro, ulteriormente modificato la prescrizione introducendo la sospensione della decorrenza a partire dalla sentenza di primo grado o dal decreto penale di condanna; da ultimo la Riforma Cartabia che mira ad ulteriormente velocizzare i tempi di celebrazione dei processi anche con la massiccia digitalizzazione del processo penale.

Nessuno dei molteplici interventi elencati è apparso finalizzato ad una revisione organica dell’esperienza processuale. Ciascuna modifica è riultata per lo più il frutto di una grottesca inversione del fisiologico rapporto tra legislazione e giurisdizione. Il diritto vivente, espresso dalla giurisprudenza, avrebbe dovuto uniformarsi al diritto vigente, prodotto dal legislatore; è stato invece il diritto vigente ad inseguire e ratificare gli approdi innovativi del diritto giurisprudenziale.
Anche il nuovo governo ha annunciato correttivi ai meccanismi introdotti dalla più recente riforma e la messa allo studio di propri interventi riformatori.
Di ciascuna delle riforme evocate si era detto che si sarebbe rivelata funzionale a snellire la celebrazione del processo: la lentezza del processo – si è costantemente affermato – costituiva un fattore di diseconomia, disincentivante investimenti stranieri e crescita produttiva.
Non era vero: gli investimenti esteri non sono stati mai disincentivati dalle disfunzioni della giustizia. Non vi è comparto strategico della nostra economia che, nel frattempo, non sia andato svenduto ed acquisito da capitali e fondi stranieri (tessile, siderurgico, agroalimentare, assicurativo, bancario, finanche i club calcistici ). Le spinte efficientiste sul processo, alla prova dei fatti, si sono rivelate tutte fallimentari, non avendo mai fatto registrare ricadute positive in termini di crescita economica e snellimento processuale. Se davvero ciascuna riforma avesse inciso favorevolmente sulla produttività del paese, l’Italia sarebbe dovuta assurgere nel frattempo a superpotenza economica mondiale, considerato numero e portata dei provvedimenti di riforma processuale varati.
L’esito gattopardesco del moto perpetuo di riforma della giustizia in Italia è stato che il pubblico ministero ha sempre conservato l’appartenenza al medesimo Ordine di cui fanno parte anche i magistrati giudicanti. E la separazione delle carriere continua ad attendere.
Carmine Ippolito