Cronaca di un referendum oscurato

Il 12 giugno prossimo il corpo elettorale è convocato alle urne  per esprimersi su cinque quesiti abrogativi di norme vigenti.

La gran parte degli italiani, a poche settimane dal voto, ancora ne ignora sia l’esistenza che l’importanza. Eppure  la chiamata alle urne è decisiva. Per la prima volta la volontà popolare può esprimersi su temi fondamentali che riguardano meccanismi di giustizia universalmente censurati: può decidere se è giusto separare la carriera e i destini di chi giudica e chi accusa, se è giusto che una sentenza non definitiva inibisca l’esercizio di una carica elettiva condizionando l’esito del voto popolare o ancora se è giusto che gli avvocati, nei consigli giudiziari svolgano una mera funzione ornamentale, poco più che una pianta o un suppellettile. L’elettore può decidere se è condivisibile che un magistrato, autonomo, imparziale e indipendente, per candidarsi al CSM, debba necessariamente essere espressione o prigioniero dei meccanismi correntocratici interni.

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 E’ chiaro l’intendimento del c.d. establishment politico, mediatico e giudiziario di destinare al fallimento una consultazione referendaria di tale natura.

Affinché l’appuntamento referendario non vada fallito è necessario infatti il raggiungimento di un quorum e che partecipino, pertanto, alla consultazione almeno il 50% degli aventi diritto al voto. 

Della portata riformatrice dei quesiti è di certo allo stato consapevole un numero di persone infinitamente inferiore al quorum (metà degli aventi diritto più uno).

Gli opinionisti non mancheranno, ad urne chiuse, di esercitarsi nella cronaca e nelle illuminanti analisi di un fallimento annunciato.

Eppure, fino al giorno della consultazione gli stessi opinionisti e leader di partiti e movimenti politici si guarderanno bene dall’affrontare pubblicamente il confronto e l’approfondimento delle tematiche referendarie. Discetteranno, instancabilmente ancora del covid, della progressiva aggressività delle varianti, dei vaccini, di Putin, di Biden e di Zelensky. Del vaiolo delle scimmie, della crisi energetica ed alimentare. All’opportunità riformatrice unica, offerta dai referendum, di dare una spallata al sistema giudiziario, ed alla giustizia intesa come sistema di potere consociativo ed autoreferenziale, saranno riservati trafiletti o lapidari cenni in chiusura di programma. Tutto affinché la pubblica opinione non sia posta nella condizione di cogliere contenuto, portata e significato della scelta referendaria cui è chiamata.

La sinistra e le toghe del resto non hanno fatto mistero dell’aspirazione di vedere fallita la consultazione popolare.

E questo spiega  la congiura del silenzio cui la campagna referendaria “più oscurata della storia repubblicana” è stata condannata dalle grandi testate giornalistiche e televisive.

Le ricadute saranno gravissime, definitive ed irreversibili non solo per la giustizia, ma anche per la tenuta della coscienza democratica della nazione.

Il disegno gattopardesco è già chiaramente delineato:

il mancato raggiungimento del quorum referendario verrà evocato, quale pietra tombale futura, su ogni concreta prospettiva di riforma orientata ad affermare meccanismi giudiziari meglio conformi agli enunciati costituzionali: la separazione di funzioni e carriere tra chi accusa e chi giudica, il principio per cui, nessuno, nemmeno un magistrato, può porsi al di sopra della legge nella cornice ordinamentale di uno stato di diritto che si definisca tale per una ormai stanca petizione di principio a cui nessuno è più disposto a credere.  

Per la tenuta della coscienza democratica, invece, gli effetti dello svilimento dello strumento referendario possono apprezzarsi ancora più allarmanti. E’ un dato paradossale che il massimo meccanismo di democrazia diretta venga svilito in Italia, visto che la forma di stato repubblicana è tale proprio grazie alla plebiscitaria partecipazione al referendum del 2 giugno 1946.

La  forma di stato repubblicana è stata prescelta come immodificabile all’esito del più grande esercizio di democrazia che la storia del paese ricordi e di cui, tra pochi giorni, ricorre l’anniversario civile e la imbalsamata celebrazione istituzionale.

Negli ultimi 25 anni, su 28 referendum abrogativi solo 3 hanno raggiunto il quorum. La dimensione del fenomeno merita attenzione tenuto conto della concomitante e progressiva marginalizzazione del parlamento nel processo di produzione normativa e  nelle scelte di indirizzo politico del paese. Quanto accade è frutto accidentale del caso, del disinteresse specifico sui temi referendari, della scarsa sensibilità alle questioni che attengono all’apparato giudiziario, o perché la disaffezione al voto è alimentata dal potere e l’Italia assomiglia sempre meno ad una vera democrazia?

Carmine Ippolito

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