
Filippo Andreatta, figlio di Beniamino, è il braccio di destro dell’attuale segretario del partito democratico, Letta professor Enrico.
Qualche giorno fa, nel corso di un’intervista al Corriere della sera, Andreatta ha affermato che “oggi essere di sinistra significa essere europeisti”.
La tesi non è nuova ma è significativa. Non solo perché espressa nel corso di un’intervista in cui Andreatta ha tratteggiato, a grandi linee, quale dovrà essere il quadro valoriale del nuovo Partito democratico, ma anche perché la vocazione europeista viene con convinzione riaffermata nel 2021, centenario della nascita del partito comunista.
E’ noto che il Pd è un partito sorto dalla fusione di due grandi tradizioni politiche oramai estinte: quella democratico cristiana e quella del partito comunista italiano.
Quando tali filoni politici, alla fine della guerra, da protagonisti si riaffacciarono sullo scenario politico nazionale, compirono notevoli sforzi per trovare non pochi obiettivi comuni. Alcuni esponenti della democrazia cristiana, talora, esprimevano tesi anche più sbilanciate a sinistra rispetto a quelle che, per naturale matrice ideologica, venivano sostenute dai rappresentanti del PCI. “ La rivolta universale contro la civiltà capitalistica – scriveva Amintore Fanfani – fatta in nome di un ideale di dignità e di giustizia umana, prova che la coscienza cristiana può addormentarsi ma non può morire”.
Quel che si muove oggi nel solco della medesima tradizione ideologica, a sinistra, si profonde, invece, deliberatamente per mettere in soffitta il suo patrimonio e ad attestarsi sulla nuova linea del liberismo europeista.
E’ illuminante la lettura di un trattato, recentemente pubblicato da Laterza, dall’eloquente titolo “ La Metamorfosi, con cui lo storico marxista Luciano Canfora ricostruisce il percorso attraverso il quale il PCI, per progressive trasfigurazioni, ha finito per perseguire obiettivi e farsi alfiere di valori antitetici a quelli per i quali era sorto.
Canfora affronta il tema senza mezzi termini: “ l’attuale semi sinistra sa bene che l’europeismo, brandito con retorica e fastidiosa insistenza, non è che la figurazione romantica di una realtà intrinsecamente e prosaicamente iper liberista”.
A sinistra sembra sfuggire che il cardine del trattato istitutivo dell’Unione europea è “il divieto degli aiuti di stato alle aziende nazionali”.
L’europeismo, per come affermato proprio a sinistra, non è altro che la sostanziale negazione di quella visione economica che vedeva nell’intervento riequilibratore dello stato, nella partecipazione pubblica e nell’economia mista la strada da prescegliere.
E’indubbiamente questo l’approdo cui è pervenuta quella comunità di uomini e di ideali fondata nel 1921, come partito comunista d’Italia.
Si tratta di questione di non poco conto, visto che, attualmente, il confronto democratico è orfano della rappresentanza di tesi e prospettive sostenuta da una formazione cresciuta fino a diventare, nel 1984, il primo partito italiano, poi rapidamente liquidato dal vertice solo cinque anni dopo e sciolto, in via definitiva, nel 1990.
Il partito comunista d’Italia venne fondato nel Gennaio 1921 a Livorno, ed operò come sezione italiana dell’internazionale comunista all’esito della scissione dal partito socialista italiano dell’ala massimalista guidata da Nicola Bombacci, Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci ed Umberto Terracini.
Fu attivo dal 1921 al 1926, poi clandestinamente fino al 1944 quando venne rifondato da Palmiro Togliatti come partito comunista italiano. All’origine, quindi, sorse come forza internazionalista, anche per contrapporsi a quella che fu comunque la geniale intuizione mussoliniana di dare vita alla via nazionale alla rivoluzione, dopo il biennio rosso.
La successiva torsione in senso nazionale fu poi la prima perdurante mutazione del movimento comunista internazionale. Metamorfosi tradottasi, sul piano dell’azione politica, nella grande guerra patriottica della Russia ed, in Italia, nel partito nuovo, riproposto da Palmiro Togliatti come forza dichiaratamente “nazionale”. Il simbolo originario fu infatti mutato non a caso: non vi campeggiavano più le spighe di grano, simbolo di pacifismo internazionalista, ma vi si scorgeva chiaro un tricolore che sventolava all’unisono col drappo rosso di chiara matrice sovietica.
Con l’invasione dell’armata rossa in Ungheria, e la crisi ideologica che ne conseguì in seno alla stessa sinistra, la via nazionale al socialismo insieme al gradualismo socialdemocratico divennero opzioni che si affermarono, in via definitiva, fino allo scioglimento del partito avvenuto grazie alla svolta di Occhetto nel 1990.
Visto, pertanto, nella prospettiva di quello che resta, nell’attuale quadro politico interno, della coscienza di classe della sinistra proletaria ed operaista, del partito rappresentativo dei ceti subalterni e, soprattutto, del mondo del lavoro, l’europeismo, assurto ad articolo di fede del nuovo Pd. costituisce una scelta ideologica che, a dire dello stesso Canfora, si rivela “ vuota e ingannevole”.
Si tratta infatti della chiara ideologizzazione dell’Europa che, intesa quale mero slogan di propaganda, nuoce alla stessa idea di Europa dei popoli e non delle oligarchie mercatiste che ne bramano forme di controllo sempre più totalitario.
Questo spiega la Metamorfosi della sinistra. E qui il punto di vista di chi vi scrive diverge da quello dello storico marxista che pure ne tratteggia mirabilmente il processo involutivo: l’europeismo, oggi affermato quale inamovibile caposaldo del pensiero di sinistra – ammesso che a sinistra sia dato scorgere ancora un pensiero – vorrebbe essere la nuova forma dell’internazionalismo delle origini. Nella realtà effettiva è, invece, tutt’altro: è l’internazionalismo dei benestanti, dei non esclusi dalla globalizzazione, dai processi di deindustrializzazione del sistema economico, di digitalizzazione, dematerializzazione e robotizzazione del mondo del lavoro.

Il pilastro di tale internazionalismo è smaccatamente finanziario, giammai fondato su di una visione comune di natura politica, od anche solo economica. Oggi l’europeismo è messo in crisi dall’emergenza pandemica o sanitaria che ha fatto risaltare anche tutta l’improvvisazione del ceto dominante sovranazionale, oltre agli evidenti limiti dell’architettura istituzionale comunitaria. E’ stato infatti innescato un processo debitorio ( Mes e recovery fund) di cui nessuno osa rivelare quali sacrifici costerà in futuro per essere risanato. E che, nel medio lungo termine verosimilmente, si riverbererà sulla ulteriore destrutturazione dello stato sociale di cui, certamente, la sinistra dei Letta o degli Andreatta non si ergerà a baluardo.
Di quello che, un tempo, fu il partito comunista oggi resta il partito dell’establishment, votato dalla borghesia assistita e benpensante, da magistrati, professionisti delle ong, delle cooperative e del terzo settore, da docenti universitari e giornalisti che aspirano a contare nella testate gradite dal mondo della speculazione economico finanziaria.
Qualcuno amava definirsi comunista, almeno fino a qualche anno fa. Ed oggi non se lo ricorda neppure. https://www.youtube.com/watch?v=zXKRA3HDsrw
Carmine Ippolito
Condivido in Totò e non sai quanto mi faccia male constatare il crollo totale di tutti gli ideali della mia giovinezza sessantottini però neanche tu sai indicarmi la via per combattere lo strapotere del capitalismo finanziario trionfante
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