Aeroporti, sinistra e memoria

Con un ordinanza dell’Enac, ente per l’aviazione civile,  l’aeroporto di Milano Malpensa è stato intitolato a Silvio Berlusconi, compianto leader del centro destra italiano.  La decisione ha incontrato l’immediato sostegno del Governo attraverso la immediata presa di posizione favorevole del Ministro dei trasporti Salvini. Si tratta di onorificenza dal notevole valore simbolico. L’intitolazione di un aeroporto è un atto dotato di indubbia funzione memorialistica: l’onorificenza viene riservata a statisti, eroi nazionali, martiri, figure fondative: a Charles del Gaulle, fondatore della V Repubblica francese, è intitolato l’aeroporto di Parigi, a John Fitzgerald  Kennedy quello di New York, a Giovanni Falcone l’aeroporto di Palermo.  Quella di Silvio Berlusconi fu di certo una figura controversa: era prevedibile che l’intitolazione al fondatore di Forza Italia dello scalo di Malpensa generasse, soprattutto a sinistra, veementi polemiche. La legge che regolamenta l’intitolazione delle strade, o di altri luoghi pubblici, forse neppure consentiva di conferire tale riconoscimento al Cavaliere, non essendo ancora decorsi dieci anni dalla sua scomparsa. Al di là di ogni rilievo di natura strettamente legalistico formale, in effetti la scelta dell’onorificenza riservata al Cavaliere si rivela inappropriata anche nel merito della decisione.  Meglio avrebbe esaltato la figura del fondatore di Canale 5 diversa onorificenza:  più conforme alla storia peculiare dell’uomo e del politico doveva apprezzarsi l’intitolazione di altra struttura. Previa abrogazione solenne della legge Merlin, quella che ha infaustamente bandito le case di tolleranza, a Berlusconi sarebbe risultato più corretto intitolare un pio istituto di accoglienza e di riposo, per esempio, per le tutte le vestali di alto bordo, infelicemente denominate a suo tempo olgettine, che numerose si succedettero nell’amorevole cura della suo benessere psicofisico ed al fervente culto della sua vulcanica personalità. Il Cavaliere che, tra i tanti pregi, era oltretutto uomo di grande spirito, avrebbe molto apprezzato tale comunque ragguardevole riconoscimento, consapevole di averlo a pieno titolo meritato avendo costantemente riservato al gentil sesso, attenzioni privilegiate elevandone, in pompa magna, non poche alle più alte cariche repubblicane.     

Le polemiche, sull’aeroporto Berlusconi, non destano perplessità tanto nel merito quanto piuttosto nella matrice, perché promananti da esponenti delle formazioni della sinistra Italiana che, sotto il profilo della legittimazione etica, dovrebbero imporsi di tacere. 

 La sinistra italiana vanta, nelle proprie fila, figure presentabili, idonee ad assurgere alla contestata onorificenza?

 Pensano magari a Fassino cui, un lontano giorno, sarà d’obbligo intitolare quantomeno il duty free dell’aeroporto di Fiumicino considerato che l’ex comunista, deputato PD, già segretario del PD PDS, ha dato negli aeroporti italiani recenti e mirabili prove di furtiva  destrezza. O magari pensano di intitolare aeroporti ai compagni che ricevevano o prelevavano, oltre che l’oro da mosca, anche le tangenti dalla lega delle cooperative in affari con la camorra. Uno scalo aeroportuale, andrebbe riservato al ricordo di Giorgio Napolitano, ex presidente della Repubblica, evitando di opportunamente menzionare che, l’ex Presidente della Repubblica, durante l’VIII congresso del partito comunista, che si tenne nel dicembre del 1956, non mancò di elogiare l’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria, sposando in pieno la linea dettata da Palmiro Togliatti, allora segretario del partito comunista italiano. Per restare sempre a sinistra, un giorno ci saranno aeroporti da intitolare alla straordinaria figura del senatore semplice, già segretario rottamatore del PD,  Matteo Renzi, oggi segretario di Italia Viva. Pur facendosi eleggere senatore della Repubblica Italiana, Renzi non fa mistero di ricevere emolumenti cospicui, quale consulente di altri stati, trovando la cosa più naturale del mondo giurare fedeltà alla Repubblica Italiana ed incassare migliaia di Euro da organismi che fanno capo, per esempio, alla dinastia saudita, che governa uno stato fondamentalista, che non rispetta diritti umani e che non appartiene ai sistemi di alleanze cui partecipa lo stato italiano.

Lo scalo di grazzanise o di Capodichino, in Campania, andrebbe opportunamente intitolato agli esponenti del Pd campano che, di recente, sono stati colti, nelle indagini sulle tangenti per il Rione terra di Pozzuoli, con un bel po’ di bigliettoni fruscianti in borsa. Denaro di cui è rimasta improbabile o non meglio specificata la provenienza. La lista è lunga. Difficile a dirsi se l’imbarazzo è nella scelta o la scelta nell’imbarazzo: ai diversi protagonisti del Qatar Gate un aeroporto pure andrebbe intitolato. Già deputati al parlamento europeo, hanno ricevuto fino a 17.000 euro al mese, al nero ed in contanti, dal governo marocchino o qatariota per favorirne gli interessi, soprattutto in materia di sfruttamento della manodopera di tali paesi. ( cumpagn, cumpagn tu fatic ed io magn) Un aeroporto potrà essere intitolato, per meriti altamente umanitari alla famiglia soumahoro ( deputato Pd), a Lucano già sindaco di Riace ed oggi eletto al parlamento Europeo, A Buzzi ed tutti coloro che, a sinistra, con la gestione degli immigrati hanno fatto soldi e fortuna, come “con la droga mai sarebbero riusciti”. Un aeroporto di certo dovrà essere intitolato ad Ilaria Salis visto che, non avendo di meglio da eleggere, il popolo di sinistra ha mandato al Parlamento europeo per essere assurta agli onori delle cronache per la commissione di atti di squadrismo e violenza politica ed altri reati comuni.   I restanti aeroporti minori, magari quelli prossimi all’aeroporto Malpensa Silvio berlusconi, andrebbero di diritto intitolati a magistrati che, come Davigo, al “Caimano” non mancarono mai di dedicare tante premurose attenzioni. Un aeroporto andrebbe intitolato di certo a ciascuno di quegli appartenenti all’ordine giudiziario che  sono passati alla storia come “palamara boys”. Costoro meritano tale altissima onorificenza per  avere contribuito a mantenere in vita un sistema giudiziario fondato sulla simoniaca compravendita degli incarichi direttivi degli uffici giudiziari. Il CSM li ha mandato tutti prosciolti, sotto il profilo disciplinare, facendo leva sulle provvidenziali conclusioni di una sentenza della Corte Costituzionale che dava ragione al Senato, nel conflitto con la Procura di Firenze, in un procedimento a carico del senatore Renzi. Il CSM, grazie a tale sentenza che riconosceva i messaggi wapp inviolabili senza un provvedimento dell’autorità giudiziaria, ha ritenuto inutilizzabili i contenuto delle chat dei magistrati . Tutto affinché si preservasse autonomia,  indipendenza ed imparzialità della magistratura.  L’aeroporto di Palermo, oggi intitolato a Giovanni Falcone,  andrebbe opportunamente intitolato invece a Pietro Giammanco, capo della Procura Palermitana quando si verificarono le stragi di Capaci e via D’Amelio.  Giammanco aveva sempre osteggiato  le indagini mafia appalti di condotte da Falcone, dal generale Mori e dal colonnello de donno. Giammanco la mattina dell’attentato di via d’Amelio telefono’ a Borsellino* per comunicargli che aveva deciso di affidargli coordinamento delle indagini su mafia e appalti. Quel 19 Luglio era una domenica mattina. Ciononostante Giammanco non mancò di avvertire la necessità di telefonare il collega per comunicargli che aveva assunto tale tormentata decisione.  Sentiva, Giammanco, indifferibile tale incombenza, tale che non avrebbe consentiva di attendere che il lunedì per questa comunicazione di servizio.  Peccato però che Giammanco tacque a Borsellino di avere firmato 4 giorni prima la richiesta di archiviazione. La sera del 19 luglio sappiano tutti come è andata a finire e cosa accadde a via D’Amelio. .  Non tutti sappiamo,  anzi non tutti vogliamo sapere, che il 14 agosto, quando al tribunale di Palermo non trovi neppure l’usciere che ti porti le chiavi del cesso per pisciare, un gip firmò l’archiviazione di quell’indagine Mafia Appalti. A tutti questi santi laici, assistiti dalla prerogativa di superiorità etica ancora vantata dalla sinistra, glielo vogliamo intitolare un santuario, un pantheon, piuttosto che un aeroporto. O no?

*https://progettosanfrancesco.it/2024/07/20/latto-daccusa-di-manfredi-borsellino-quella-strana-telefonata-di-giammanco-e-nellinchiesta-mafia-e-appalti-spunta-un-nuovo-documento/

Carmine Ippolito

  • Aspettando il museo

    Aspettando il museo

    di Franco Russo cultura, poesia e canto quali strumenti di rigenerazione civile di un territorio scomodo L’immagine di una Napoli che, per anni ha affidato, alla Camorra il culto dei suoi morti, è quella che oggi ignobilmente, primeggia sulla stampa e nelle immagini televisive. Questa immagine è l’emblema dello stato di degrado assoluto in cui…

  • Aspettando il museo

    di Franco Russo cultura, poesia e canto quali strumenti di rigenerazione civile di un territorio scomodo L’immagine di una Napoli che, per anni ha affidato, alla Camorra il culto dei suoi morti, è quella che oggi ignobilmente, primeggia sulla stampa e nelle immagini televisive. Questa immagine è l’emblema dello stato di degrado assoluto in cui…

  • Se questa è scienza

    il ciarlatano e le sue miracolose pozioni Breve riassunto delle puntate precedenti: l’agenzia del farmaco italiana ( AIFA) ha autorizzato il mix vaccinale affermando l’elevata sicurezza della vaccinazione eterologa. A tali conclusioni l’ente di controllo è pervenuto senza evidenze sperimentali solide circa i rischi ed i benefici del singolare frullato farmacologico adesso prescritto dal governo…

  • Scienza, razionalità e magia

    L’indistinguibile linea di confine su cui fondano le scelte della politica sanitaria in tempi di Covid Mentre cala il numero dei decessi, dei ricoveri e dei contagi, con l’avanzare della campagna vaccinale aumenta il numero delle vittime degli effetti avversi dei  farmaci genici somministrati come vaccini.  Dopo avere dapprima autorizzato, dietro parere favorevole del CTS…

  • Aspettando il museo

    di Franco Russo cultura, poesia e canto quali strumenti di rigenerazione civile di un territorio scomodo L’immagine di una Napoli che, per anni ha affidato, alla Camorra il culto dei suoi morti, è quella che oggi ignobilmente, primeggia sulla stampa e nelle immagini televisive. Questa immagine è l’emblema dello stato di degrado assoluto in cui…

  • Se questa è scienza

    il ciarlatano e le sue miracolose pozioni Breve riassunto delle puntate precedenti: l’agenzia del farmaco italiana ( AIFA) ha autorizzato il mix vaccinale affermando l’elevata sicurezza della vaccinazione eterologa. A tali conclusioni l’ente di controllo è pervenuto senza evidenze sperimentali solide circa i rischi ed i benefici del singolare frullato farmacologico adesso prescritto dal governo…

  • Scienza, razionalità e magia

    L’indistinguibile linea di confine su cui fondano le scelte della politica sanitaria in tempi di Covid Mentre cala il numero dei decessi, dei ricoveri e dei contagi, con l’avanzare della campagna vaccinale aumenta il numero delle vittime degli effetti avversi dei  farmaci genici somministrati come vaccini.  Dopo avere dapprima autorizzato, dietro parere favorevole del CTS…

  • Sottomissione digitale e vulnerabilità politica

    Karim Ahmad khan

    Il processo di transizione digitale ha un costo elevato.  La
    digitalizzazione implica, infatti, che il funzionamento degli stati,
    ed il conseguente esercizio dei diritti, avvenga mediante il necessario ricorso all’uso di
    dispositivi e canali telematici.

     L’ accelerazione impressa al processo di informatizzazione,
    avvenuta in uno stato di euforia collettiva, ha impedito
    finora di metterne a fuoco le ricadute negative sulla vita delle democrazie e sull’esercizio delle libertà fondamentali.

    Non si è prestata la necessaria attenzione agli effetti derivanti
    dalla concentrazione dei servizi cloud infrastrutturali presso un
    ristrettissimo numero di piattaforme statunitensi ( Amazon, Microsoft e
    google).

    La zelante adesione ai piani di transizione digitale è avvenuta senza
    adeguatamente considerare la sostanziale incapacità delle istituzioni democratiche di controllare, gestire e proteggere, con la continuità necessaria, le
    proprie risorse digitali, intese come dati, infrastrutture,
    tecnologie e servizi, per gli Stati che non dispongono di autonome piattaforme.

    Nei primi mesi del 2025, si è verificato un episodio, passato quasi sotto silenzio, che illustra con
    chiarezza come la dipendenza europea dalle piattaforme digitali
    statunitensi possa trasformarsi in vulnerabilità geopolitica.

    A metà Febbraio Microsoft ha disattivato l’account di posta
    istituzionale del procuratore capo della Corte penale internazionale,
    Karim Ahmad Khan, privando la CPI di una canale di comunicazione
    fondamentale.

    La disattivazione è stata disposta in esecuzione dell’Ordine Esecutivo
    14203 “Imposing Sanctions on the International Criminal Court”,
    firmato il 6 febbraio 2025 dalla Casa Bianca.

    L’atto presidenziale con il quale, dalla studio ovale, è stato
    disattivato, d’imperio, l’account della Corte dell’Aia, è stato emesso
    sulla base dell’ International Emergency Economic Powers Act. È stata
    così unilateralmente irrogata, in relazione ai procedimenti in corso per crimini di
    guerra relativi alle indagini sul genocidio in corso a Gaza, una
    sanzione nei confronti del procuratore della CPI dagli effetti
    mutilanti ed immediatamente esecutivi.

    La disattivazione immediata si è resa possibile stante la
    concentrazione in mano statunitense delle infrastrutture digitali cui
    è necessario fare ricorso, su scala globale, per informatizzare ogni
    anfratto della vita civile e dell’esistenza personale e collettiva.

    Non desta meraviglia che la vicenda, sebbene gravissima, non ha ricevuto dalla stampa il
    risalto che avrebbe meritato, e neppure ha destato discussioni o polemiche.

    Eppure si trattava di questione gravissima, implicando l’interruzione, arbitrariamente decisa dall’ amministrazione americana,
    del servizio di un ufficio giudiziario sovranazionale che è stato, con
    un click, privato temporaneamente di un canale di comunicazione essenziale.
    La disattivazione dell’ account della Corte competente a giudicare sui crimini di guerra , ha rappresentato un eloquente messaggio trasversale a governi e imprese di ogni continente affinché risultasse universalmente chiaro che
    provvedimento amministrativo statunitense può istantaneamente minare la tenuta dello Stato
    di diritto interno e internazionale.

    Occorre allora riconoscere che siamo precipitati nella illuminata era della sottomissione digitale, dove l’Europa versa in
    una condizione tecnologica di assoluta irrilevanza.

    In sostanza, affidando il funzionamento di istituzioni e servizi alle
    infrastrutture digitali statunitensi , l’Europa si è stretta da sola la corda al
    collo. Non ci sono, allo stato, alternative . Allorquando Amazon, Microsoft,
    Google, anche per ordine esecutivo della Casa bianca, decidessero di
    staccare la spina ( per ragioni politiche, economiche, strategiche o
    anche solo di business) ci ritroveremmo con server spenti, dati
    bloccati e apparati, servizi e istituzioni paralizzati.

    E dire che il continente paga già ogni anno un salatissimo pedaggio di
    250 miliardi di euro per usare le autostrade digitali di Amazon,
    Google e microsoft. Ed i prezzi dei servizi cloud, come
    ciascuno può constatare, aumentano vertiginosamente ogni anno,
    generando un fenomeno già noto come techflazione. E non è possibile non
    pagare quanto ogni anno ci viene estorto, in termini di aumenti sulle
    tariffe sui servizi digitali, derivandone, in caso contrario, il
    mancato esercizio dei diritti e delle attività fondamentali che oggi
    presuppongono l’obbligatorio impiego delle piattaforme digitali.

    L’unica alternativa sarebbe quella di affidarsi alle piattaforme
    cinesi, cadendo così dalla padella alla brace, viste le prevedibili pesanti
    ricadute,in termini di censura, che ne conseguirebbero all’istante.

    L’Europa si illude di risolvere la questione sempre mediante la
    scrittura di regole, perché nella produzione legislativa siamo
    maestri. Peccato che senza mettere mano ai giganteschi investimenti necessari a
    realizzare server, chip, cavi sottomarini e data center  autonomi,
    ogni soluzione per uscire dalla condizione di sudditanza tecnologica è del tutto illusoria.

    Microsoft ha celebrato i 4 mila miliardi di capitalizzazione, mentre
    l’Ue ha previsto nella bozza di bilancio 2028 – 2032 la costituzione
    di un fondo di 50 miliardi per l’innovazione.

    Avendo intrapreso, a tappe forzate, il processo di digitalizzazione
    della vita civile, l’Europa deve riconoscere che  la sfida di sistema
    si gioca sul piano della capacità di archiviare, conservare e
    processare i dati che fanno funzionare ospedali, uffici, questure,
    impianti, caserme, aziende, insomma interi stati. E’ urgente sottrarsi
    allo strangolamento di una moderna forma di colonizzazione
    algoritmica, pericolosa perché tanto letale, quanto seducente e
    silenziosa.

    Carmine Ippolito

  • Al Masri, commedia, tragedia e comiche finali.

    Nuovo capitolo della vicenda Al Masri, il militare libico accusato di
    torture e crimini contro l’umanità, arrestato, su mandato della Corte
    penale internazionale, poi espulso e riaccompagnato in Patria con volo
    di stato italiano.  Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esce
    dal caso in quanto il Tribunale dei ministri ha deciso di archiviarne
    la posizione. Mentre nei confronti dei ministri dell’Interno e della
    Giustizia, Matteo Piantadosi e Carlo Nordio, e del sottosegretario
    alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, si ritiene
    praticabile una ragionevole previsione di condanna per i reati di
    peculato e favoreggiamento  e viene avanzata richiesta di rinvio a
    giudizio e di autorizzazione a procedere.

    La decisione del Tribunale dei ministri è stata preceduta di qualche
    giorno dai contenuti di un’eloquente intervista, rilasciata al
    quotidiano la Repubblica, dal dott. Raffaele Piccirillo, sostituto
    procuratore generale presso la Corte di Cassazione ed erudito
    giurista.  L’intervista ha di certo inconsapevolmente anticipato gli
    esiti dell’istruttoria sul caso, ma le argomentazioni in essa
    articolate, in quanto speculari alle valutazioni cui è successivamente
    pervenuto il Tribunale dei Ministri circa la responsabilità degli
    uomini di governo indagati,  ne rende l’analisi dei contenuti
    particolarmente stimolante.

    Piccirillo, già capo di gabinetto al ministero della Giustizia
    allorquando occupava il dicastero l’eminente avvocato grillino
    Bonafede, al secolo Fefè o Dj – nel corso dell’intervista ha
    motivatamente sentenziato  che non vi fosse alcuna ragione giuridica
    per non convalidare l’arresto di Al Masri, e per non consegnare il
    generale libico alla Corte penale internazionale.

    Con assoluta chiarezza espositiva, l’ex capo di gabinetto del Ministro
    a cinque stelle, ha chiarito  che le disposizioni contemplate dalla
    normativa che regola l’esecuzione dei mandati di arresto della Corte
    penale internazionale, risultavano essere state negligentemente
    disattese, dai soggetti istituzionalmente chiamati ad adottare,
    ciascuno per quanto di rispettiva competenza, i provvedimenti del
    caso.

    Era prevedibile immaginare che il punto di vista critico, promanando
    da fonte qualificata e autorevole, sarebbe risultato politicamente
    significativo in quanto, per farla breve, espressione di una visione
    politica e di un pensiero giuridico alternativo rispetto a quello che
    aveva ispirato le scelte degli uomini di governo intervenuti ad
    affrontare la questione nella peculiare contingenza operativa derivata
    dall’arresto di l Masri.  Le affermazioni del dottor Piccirillo
    rendono plausibile, quindi, ipotizzare che, nel caso in cui, all’atto
    dell’arresto del presunto torturatore libico, vi fosse stata al
    governo una coalizione a 5 stelle, costui giammai sarebbe stato
    espulso e rimpatriato in Libia. Al contrario, stando alla lucida
    valutazione dell’ex capo di gabinetto dell’indimenticato ministro
    grillino, con indefessa solerzia ed intransigente osservanza delle
    norme, Al Masri sarebbe stato consegnato agli organi della Corte
    penale internazionale in esecuzione del mandato di arresto.

    Al di là di ogni fisiologica contrapposizione strumentalmente polemica
    tra contrapposti schieramenti politici,  il caso sottende una
    questione che travalica i termini della corretta applicazione
    procedurale, vertendo sul  massimo problema intorno a cui ha ruotato
    la contemporanea speculazione politica occidentale.

    In taluni casi, la decisione di un governo si misura, purtroppo, con
    l’innegabile difficoltà di conciliare la teoria giuridica dello stato
    con la comprensione scientifica della politica. E tale significativo
    aspetto, nella critica valutazione dell’ex capo di gabinetto del
    ministro grillino – come nelle assimilabili  determinazioni del
    Tribunale dei Ministri sull’operato degli uomini di governo
    intervenuti – viene troppo disinvoltamente tralasciato.

    Allorquando le ragioni del diritto e quelle degli interessi tutelati
    dallo stato collidono – e’ questo il quesito di fondo- il decisore,
    ossia colui che è chiamato ad assumere la decisione politica sovrana,
    è tenuto ad affermare il primato della nuda norma o a tutelare la
    sicurezza interna ed esterna dello stato?

    Lo stato moderno, a differenza di qualsivoglia altro soggetto di
    diritto, ha due anime, essendo una manifestazione della politicità e,
    contemporaneamente, un ordinamento giuridico che si articola anche sul
    piano sovranazionale.

     Vero è che gli stati che hanno aderito al trattato istitutivo della
    Corte penale internazionale hanno ceduto parte della propria sovranità
    giurisdizionale a quest’organo sovranazionale cui è stata
    riconosciuta, con il trattato di Roma, competenza funzionale a
    trattare genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.

    Ciononostante, le decisioni adottate, nel caso al Masri, dal governo e
    dai magistrati della Corte di appello di Roma, non collidono con la
    teoria giuridica dello stato trattandosi delle uniche determinazioni
    che politicamente potevano essere assunte in una condizione
    assimilabile al cosiddetto stato di eccezione.

    Quello dello stato di eccezione è un concetto universalmente
    riconosciuto dalla teoria generale del diritto. Si tratta di concetto
    limite, ma nient’affatto confuso, di cui è agevole richiamare esempi,
    anche della storia recente del nostro paese, che  legittimano la
    compatibilità con l’ordinamento e la teoria giuridica dello stato di
    decisioni assunte su accadimenti del tutto imprevedibili nella
    produzione normativa del legislatore . Basti ricordare  l’arresto di
    Mussolini, disposto il 25 Luglio 1943 dal Re, la sospensione della
    scarcerazione di Priebke conseguente ad una sentenza dichiarativa
    della prescrizione, disposta dal ministro della giustizia,  ossia da
    un soggetto privo di competenze funzionali ad emettere atti privativi
    della libertà personale.

    La decisione adottata sul caso Al Masri costituisce un atto di stato
    anomalo, e se vogliamo ripugnante, avendo determinato l’espulsione di
    un comandante libico accusato dei peggiori delitti commessi nella sua
    patria. E’ errato ritenere, però, come si pretende fare, sulla base di
    una visione giuridica connotata da un normativismo di matrice
    assolutizzante, che tale difficile decisione possa apprezzarsi
    illegittima, delittuosa o criminale.

    Nel caso di specie giammai i decisori politici risultano avere
    determinato uno sviamento delle funzioni istituzionali loro
    attribuite. Ricorreva, infatti, quella oggettiva condizione di
    necessità qualificabile, sul piano della teoria generale dello stato,
    come stato di eccezione:  certo è che dalla consegna di Al Masri alla
    Corte dell’Aia ne sarebbe derivata la concreta esposizione a pericolo
    della sicurezza interna ed esterna dello stato, ossia  di cittadini ed
    imprese strategiche nazionali, operanti nella regione libica. Il
    governo ha agito pertanto in una condizione nella quale alla nuda
    norma non poteva essere riconosciuto un formalistico primato, e le
    prerogative sovrane dello stato repubblicano dovevano ritrovare
    prevalenza e massima espansione .

    Nessuno può affermare che la Libia è, dallo spodestamento di Gheddafi,
    uno stato normale. Forse non è più nemmeno uno stato. Non è di certo
    uno stato di diritto. La Libia è uno stato anomico, ove non esiste un
    unico governo, dove molte tribù e fazioni armate si contendono, con
    ogni mezzo, il controllo militare del territorio e delle risorse. E
    dove la certezza della legge non esiste. Se fosse stata data
    formalisticamente esecuzione, da governo e corte di appello, al
    mandato di arresto di Al Masri, di certo cittadini, imprese ed
    interessi italiani sarebbero risultati automaticamente esposti un
    ampio fronte di aperta belligeranza.  E’ possibile, invece, concludere
    che se, al governo, allorquando è stato arrestato il generale libico,
    avessimo avuto un governo a guida grillina, il primato della norma
    sarebbe stato fatto salvo, ma la sicurezza dello stato repubblicano
    sarebbe stata in pericolo. E’ difficile riconoscere a quale
    genere rappresentativo ( commedia o tragedia?)  la tormentata trama
    della vicenda al Masri meglio si presta ad essere iscritta.   Di
    certo, siamo ancora molto  lontani dall’epilogo e, quindi, dalle
    comiche finali.

    Carmine Ippolito

    https://youtu.be/GpodwSSx-5o?si=kv1vJVXUY7FVIxsJhttps://youtu.be/GpodwSSx-5o?si=kv1vJVXUY7FVIxsJ

  • Elogio dei dazi

    La guerra commerciale su scala mondiale è esplosa. Meglio tardi che
    mai. Era ora che nell’emisfero occidentale, progressivamente
    deindustrializzato, quello delle cosiddette democrazie liberali,
    qualcuno si decidesse a rompere gli indugi. Bene, nell’interesse di tutti,
    che lo abbia fatto l’amministrazione americana. Senza esitare, a
    poche settimane dall’insediamento, la strana coppia, Trump – Vance, ha
    introdotto un regime tariffario sulle importazioni volto ad arginare il
    deficit della bilancia commerciale e, soprattutto, idoneo a
    determinare la ripresa del processo di reindustrializzazione del
    paese. Vero è che, negli ultimi trent’anni, il vitalismo economico dei
    paesi ad alto reddito, in ragione del gigantesco processo di
    delocalizzazione della produzione industriale, si è andato
    progressivamente spegnendo. E’ da quando la Cina è diventata membro
    dell’organizzazione mondiale del commercio che gli indici di
    produzione industriale consacrano, nelle nazioni occidentali, il
    crollo e la progressiva erosione del comparto manifatturiero. Ne sono
    derivate costanti ricadute negative sul piano dell’occupazione, della
    domanda interna e della produzione di ricchezza per le nazioni che
    paradossalmente si autodefinivano come paesi maggiormente
    industrializzati. Le misure di natura protezionistica, energicamente
    introdotte dall’amministrazione Trump, prima di ogni altra cosa,
    determinano, invece, ricadute generalizzate sui mercati finanziari
    perché idonee a stravolgere l’ordine globale e macroeconomico
    affermatosi a partire dalla stipula del trattato istitutivo
    dell’Organizzazione mondiale del commercio, firmato a Marrakech il
    15.04.1994 e, successivamente, consolidatosi con l’ingresso della Cina
    nel WTO l’ 11 dicembre 2001.


    I fenomeni di ritorno che si sono innescati, per effetto
    dell’assimilazione nel medesimo ordine economico
    internazionale delineato dal WTO, di democrazie mature e liberali  e
    sistemi totalitari, autocratici e non socialmente progrediti, erano
    prevedibili. E da tanti, come chi vi scrive, erano stati preconizzati. Eccone una
    sintetica selezione: 1) si era detto: “ l’occidente esporterà
    ricchezza ed importerà poverta”. Ed è accaduto!; 2) si era aggiunto
    che “i salari occidentali” sarebbero entrati, al ribasso, in
    concorrenza con i “
    salari orientali” senza che gli operai orientali debbano immigrare e
    venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Ed è accaduto che i capitali
    occidentali si sono trasferiti laddove i salari erano più bassi,
    direttamente o indirettamente finanziando le fabbriche orientali. La
    convenienza ad investire dove la manodopera costa di meno ha
    innescato, tra i proletari di tutto il mondo, la concorrenza
    salariale al ribasso; 3) i salari occidentali si sono livellati
    al ribasso, appiattendosi sui salari orientali, nel mentre il costo
    della vita, come previsto,. è rimasto saldamente attestato agli alti standard
    occidentali di talché lo “spettro della povertà” si è progressivamente
    diffuso e materializzato nell’Occidente della decrescita infelice; 4)
    gli stati occidentali, come membri degli organismi sovranazionali, ed
    in particolare dell’ Unione europea e dell’Organizzazione mondiale del
    commercio, fondate sul dogmatico pilastro del libero scambio,
    hanno supinamente assistito alla contestuale demolizione del
    proprio sistema di produzione e dello stato sociale;

      Ed ora che il fantasma della povertà in occidente si è
    materializzato comincia a fare paura non solo nelle famiglie e nelle
    periferie che votano AFD in Germania, Georgescu in Romania e i
    lepenisti in Francia, ma soprattutto alla grande finanza speculativa
    ed alle elite della robotica e della tecnologia digitale.

    Risponde, invece, a logiche di senso comune e si prefigge scopi di
    salvaguardia la tanto vituperata introduzione dei dazi: sono barriere
    artificiali
    che possono applicarsi per limitare flussi commerciali provenienti da
    altri territori. Sono misure di protezione e costituiscono una
    concreta opportunità di ripresa della produzione agricola e
    industriale se le tariffe doganali vengono praticate per arginare
    importazioni di beni o prodotti provenienti da paesi che
    commercializzano prodotti sottocosto, sfruttando in forma disumana la
    manodopera, violando le regole di sanità o sicurezza dei beni nei
    cicli di produzione, oppure sfruttando
    asimmetriche economie di scala. I dazi alle importazioni di beni
    provenienti dai paesi dove la manodopera lavora in condizioni di
    sfruttamento, favoriscono il rispetto della dignità del lavoro perché
    incentivano le assunzioni e l’innalzamento dei livelli salariali,
    imponendo alle multinazionali di avviare stabilimenti produttivi
    direttamente nei paesi in cui intendono commercializzare i loro
    prodotti. La guerra commerciale dei dazi e’ una guerra giusta. E’
    sbagliato il nemico: piuttosto che con gli stati uniti, andrebbe
    ingaggiata con le tigri asiatiche: con la Cina di Xi jimping, con il
    vietnam di Pham Minh Chin  o l’India di Modi.

    Carmine Ippolito

  • ABOLIRE LE SOPRINTENDENZE

    L’iniziativa della lega, in materia di soprintendenze, non è condivisibile perche’ viziata per difetto, e non per eccesso. Le soprintendenze non vanno solo depotenziate o esautorate di
    prerogative, come chiede la Lega, ma del tutto cancellate
    dall’ordinamento, ossia immediatamente soppresse, con un ordine
    esecutivo, alla Trump per intenderci! Sulla carta dovrebbero essere
    articolazioni periferiche del ministero della cultura, concepite per
    rendere performante l’azione del dicastero nell’opera di tutela dello
    sterminato patrimonio artistico e architettonico di cui è costellato
    il territorio dell’intera penisola italica. Furono a tale scopo
    istituite nel XIX secolo, e la prima normativa in materia fu la legge
    Rosadi del 1909 che disciplinava i meccanismi di tutela statale sui
    beni culturali, paesaggistici, storici e monumentali. Tale normativa è
    stata rafforzata nel 2004 dal codice dei beni culturali e del
    paesaggio. L’obiettivo era quello di creare un apparato che fungesse
    da efficiente presidio nella conservazioni di luoghi, paesaggi e opere
    di pregio storico, artistico o culturale.  Di fatto si sono
    trasformati in soporiferi centri di potere, dorati ipogei
    istituzionali cui è affidato un potere immenso che gestiscono
    determinando la paralisi di fatto delle istituzioni preposte alla
    conservazione dei beni paesaggistici e dei complessi monumentali.
    L’emendamento del deputato della lega, Gianangelo Bof, è stato poi
    addirittura ritirato avendo verosimilmente destato sconcerto, nelle
    stesse file della maggioranza, l’idea che i pareri di questi chierici,
    in materia di interventi urbanistici e paesaggistici, allorquando la
    modifica fosse stata approvata, non sarebbero stati più vincolanti.
    L’obiettivo del deputato leghista mirava evidentemente a
    sburocratizzare e velocizzare  interventi edilizi o di restauro la cui
    realizzazione – allorquando obbligata a passare per le forche caudine
    delle soprintendenze – affonda nelle “sabbie immobili” di prassi che
    ne paralizzano la realizzazione, consegnandola a tempi biblici di
    elaborazione, studio e ultimazione. Orbene, a dispetto delle sacre
    vestali dell’ambientalismo italico, che le considerano imprescindibili
    baluardi della tutela del nostro patrimonio storico e artistico, le
    soprintendenze vanno abolite.  E’ bene chiarire che questi apparati di
    burosauri contemplativi esistono solo in Italia: negli altri paesi la
    tutela del patrimonio è affidata a commissioni di tutela, costituite
    da critici, storici dell’architettura, pittori e scultori di fama
    internazionale. E sono queste commissioni che dovrebbero soppiantarle.
    Del resto va ricordato che questi “ baluardi” burocratici ( che non
    approvano i piani paesistici, previsti dalla legge Bottai del 39, per
    esercitare un insindacabile potere discrezionale) non hanno fatto
    nulla per evitare lo scandaloso degrado cui è stata abbandonata, per
    anni, la reggia di Carditello ed altri siti borbonici. Ed ogni
    riferimento alla stazione Bayard è puramente intenzionale.

    La memoria storica non va dispersa, perché soccorre al fine di valutare la
    correttezza e l’apprezzabilità delle scelte politiche. Dalla loro
    istituzione, queste sovrastrutture di burocrati, hanno conseguito o
    tradito i loro scopi?  La soprintendenza di Napoli è responsabile del
    mostro di Alimuri, un grosso edificio costruito sugli scogli di Vico
    Equense, demolito, con ignominia delle istituzioni preposte, pochi
    anni fa. E del mostro di Pozzano, un enorme albergo costruito sui
    ruderi dell’ex cementificio, prodigiosamente classificato come
    archeologia industriale e bene da tutelare. E’ responsabile di tutti
    gli ecomostri di Ottieri, e del grattacielo della Cattolica,
    fabbricati realizzati, in pieno centro storico, tutti grazie al suo
    eminente parere favorevole.

    E’ responsabile dei mostri edilizi scaricati, come uno sfregio, sulla facciata del castello di Lamont Young al corso Vittorio Emanuele, delle stazioni del metrò collinare
    che hanno brutalizzato le più importanti piazze cittadine. Una
    menzione particolare va fatta dei baffi provvisori alla scogliera
    della rotonda Diaz, realizzati in violazione del vincolo monumentale
    di via Caracciolo. Se molta parte del Bel paese, ed in particolare il
    territorio della provincia di Napoli, è diventato una pattumiera di
    edilizia spazzatura, costituisce la prova evidente che le
    soprintendenze hanno fallito nell’opera di conseguimento degli scopi
    loro affidati.

    Alle soprintendenze va tributato un altro encomio solenne, per
    avere reso possibile che  l’affidamento dei lavori di restauro, e la
    consegna delle opere, di grandi complessi monumentali, costituisce
    esperienza che sistematicamente assurge ad impresa chimerica. Agli
    irresponsabili trastulli di queste soprastrutture abbiamo
    rovinosamente consegnato le bellezze d’Italia.

    Carmine Ippolito

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  • Perchè la Campania è di sinistra

    Amedeo Laboccetta, attuale presidente del movimento Polo Sud, è uno storico esponente della destra in Campania.  Dalle colonne del Corriere del mezzogiorno l’ex parlamentare ha argomentato la necessità, per l’area politica di centro destra, di designare il prossimo candidato presidente alla Regione Campania mediante il ricorso ad elezioni primarie.

    Stante il qualificato pulpito da cui promana, la proposta di primarie costituisce un fatto politicamente rilevante,  la cui portata segna un cambio di paradigma, per il centro destra, sulle rigidità del metodo di designazione dei candidati alla guida degli enti locali, ed il cui significato esige una riflessione attenta.

    In cinquantacinque anni , alla presidenza della Regione Campania, si sono succeduti 15 presidenti.  Dal 1970 al 1999 sono stati eletti dal Consiglio Regionale. Dal 2000, invece, in seguito alla riforma della Regione, l’elezione del presidente della giunta avviene per suffragio universale e diretto.

    In cinquant’anni di storia, la Regione Campania è stata guidata da un’amministrazione definibile di centro destra soltanto solo in due circostanze.  E da quando il presidente della giunta viene direttamente eletto dal corpo elettorale, il centro destra ha prevalso soltanto alle elezioni del 2010, allorquando Stefano Caldoro si affermò battendo Vincenzo De Luca, candidato della coalizione di centro sinistra.

    Nelle successive elezioni del 2015, invece, il centro destra subì un vero e proprio rovescio: in tale tornata fu Vincenzo De Luca a prevalere,  sostenuto dalla coalizione di centro sinistra, affermandosi non solo su Stefano Caldoro, presidente uscente, ma anche sulla candidata del Movimento 5 stelle, che raccolse un consenso di poco inferiore a quello delle liste di Forza Italia.

    Questa volta De Luca fu sostenuto dal centro sinistra dopo essersi candidato, però, sin dal 2014, alle primarie della coalizione per la scelta del candidato alla presidenza della Regione.

    Le primarie di coalizione per il centro sinistra si tennero il 1 Marzo 2015; e con il 52% delle preferenze De Luca superò l’europarlamentare del Pd, Andrea Cozzolino, ed il deputato del partito socialista italiano, Marco Di Lello, mentre gli altri candidati in lizza per rifondazione, Sel ed IDV si ritirarono prima del voto finale.

    L’onda lunga di De Luca prese di certo slancio anche dal fatto che, stavolta, la sua designazione non fu imposta da scelte verticistiche romane ma avvenne dal basso.  Vero è che si fece ricorso all’unico meccanismo di selezione primaria dei candidati alla presidenza di enti eleggibili a suffragio maggioritario e diretto. Solo l’elezione primaria, in tale forma di elezioni dirette, consente l’individuazione di figure realmente espressive della base politica territoriale delle coalizioni, e non di figure poi avvertite dall’elettorato quale frutto di scelte oligarchiche, distanti e assunte altrove.  Tale stato di cose fa il paio con quello che accade a Napoli, perché trova diretta ed immediata conferma nella situazione politica ed amministrativa del capoluogo campano, e nel consolidato orientamento a sinistra delle scelte e preferenze politiche del suo elettorato.

    Parafrasando il titolo del libro recentemente pubblicato da Bocchino “perché l’Italia è di Destra”, può ritenersi giunta l’ora, altrettanto opportunamente, di approfondire le ragioni del “perchè la Campania è di sinistra”.  

    Si tratta di un tentativo di analisi che non può ancora essere compassionevolmente differito considerato che, nel resto del paese quello di destra non è più un polo escluso o di retroguardia. Deve convenirsi che, in Campania, si è inceppato il meccanismo della democrazia dell’alternanza, quale fattore coessenziale alla tenuta democratica anche delle istituzioni periferiche. E se si intende davvero combattere un fenomeno, occorre dapprima riconoscerlo per tale.

    A Napoli, dal 1952 al 2021, sono stati eletti 19 sindaci. I sindaci di destra sono stati due ( Achille Lauro e Nicola Sansanelli). E’ da considerarsi unicamente frutto del caso se dal 1962 la destra non ha più trovato posto e rappresentanza  nella giunta della capitale del meridione d’Italia?

    Dall’avvenuta introduzione del nuovo sistema di elezione diretta del sindaco, si sono succeduti quattro sindaci, ed il candidato sindaco del centro destra non ha mai prevalso. Neppure quando, al primo turno, il candidato del centro destra si è affermato distanziando, con un significativo vantaggio, il candidato di sinistra che, al secondo turno, raddoppiando i consensi, lo avrebbe battuto.

    Cosi andarono le cose alle elezioni del 2011, allorquando al ballottaggio, venne eletto sindaco De Magistris. L’ex magistrato, dando prova di grande intuito politico, seppe cogliere lo stato di crisi in cui versava il centro sinistra napoletano, presentandosi come l’unico innovatore e moralizzatore credibile della vita amministrativa napoletana. De  Magistris, a quell’appuntamento elettorale, seppe presentarsi come l’unico argine al centro destra che, quale designazione dei vertici romani, indicava invece, quale candidato sindaco, l’imprenditore Gianni Lettieri, una figura del tutto avulsa dalla vita e dalla storia politica della città di Napoli.

    E fu così  che il centro destra, dopo avere conseguito, al primo turno, quasi il 44% per cento dei consensi, fu battuto, al ballottaggio, da De Magistris la cui coalizione, al primo  turno, aveva conseguito solo il 16,72 % dei voti. Ben sessantamila voti in meno di quelli ottenuti dal solo De Magistris quale candidato sindaco. Quest’ultimo, al secondo turno, nel testa a testa con il candidato del centro destra, vinse invece con il 65,38 % delle preferenze, raddoppiando il numero dei voti conseguiti al primo turno: passando da 128.000  a 265.000 voti. Dimostrando così che, per vincere le elezioni a suffragio diretto, il candidato alla massima carica di governo deve risultare dotato di una capacità di attrazione trasversale che si rivela decisiva per l’esito di tale peculiare forma di esperienza elettorale.

    La Campania, pertanto, può riconoscersi privata del necessario meccanismo dell’alternanza nel governo delle sue maggiori istituzioni locali anche per effetto di un ceto politico locale rivelatosi, nel centro destra e fino ad oggi, subalterno. I quadri locali del centro destra non hanno mai espresso alternative, condivise dalla partecipazione della base, rispetto a candidature designate altrove, rivelatesi perdenti anche in quanto imposte dall’alto come investiture vassallatiche. Ad accordi oligarchici ed equilibri di vertice, è stata sacrificata la democrazia dell’alternanza delle istituzioni locali, la vita interna dei partiti, la salutare competizione degli attivisti e la effettiva rappresentatività di figure che, in quanto realmente capaci di potenzialmente raccogliere un consenso ampio, interclassista, plebiscitario, non hanno goduto neppure della possibilità di essere riconosciute per tali.      

    Carmine Ippolito

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