Mio zio, Leonardo Ippolito, è un iperattivo ottantaseienne insostenibilmente burbero. E’ anche l’ultimo monumento vivente della canzone classica napoletana. Impresario artistico, ha consacrato la sua intera esistenza nella realizzazione di celebri produzioni teatrali e televisive, tutte finalizzate alla trasmissione del grande patrimonio canoro partenopeo. Noto ai più con l’appellativo di “maestro”, Ippolito da sempre si profonde con la stessa infaticabile dedizione con la quale la vestale, nel tempio, si adopera affinché mai si spenga il fuoco sacro agli Dei. Orbene, nel 2023 cade, tra gli altri, il centoventiciquesimo anniversario della pubblicazione di O sole mio. E così, l’arzillo vegliardo lamenta, con desolato sconforto, la dimenticanza dell’evento da parte delle Istituzioni amministrative e politiche locali. Come dargli torto? O sole mio, tra tutte, non è la più bella ma, di certo, è la melodia napoletana più di ogni altra diffusa nel mondo. Fu pubblicata dall’editore Bideri nel 1898. Giovanni Capurro, giornalista e redattore delle pagine culturali del quotidiano Roma di Napoli, scrisse i versi della canzone affidandone la composizione musicale al maestro Eduardo di Capua. L’artista compose la straordinaria melodia assistendo, all’alba, al sorgere del sole, guardando non quello di Napoli ma il Golfo di Odessa. Capace di travalicare ogni confine, la canzone è stata incisa in varie lingue. La più grande interpretazione del canto resta verosimilmente quella di Enrico Caruso, al pari di quella più recente di Luciano Pavarotti con il gruppo dei tre tenori. Di tutte le versioni, però, la più famosa rimane quella di Elvis Presley che, con il titolo It’s now or never, nel 1960, raggiunse la prima posizione nella “Billboard hot 100” per cinque settimane, nelle Fiandre ed in Belgio per tre settimane, nei paesi bassi per dieci settimane, in Norvegia, Regno Unito e Australia e la seconda in Germania. Il disco della rockstar americana vendette in tutto dieci milioni di copie, risultando il più venduto di tutta la sua carriera. Il testo di Capurro, poi, è un capolavoro di semantica, capace di esprimere concetti di bellezza sublime con poche parole semplici. Meritò la citazione di Proust in uno dei volumi di “Alla ricerca del tempo perduto”. Eloquente, sopra ogni altra, è la circostanza che in più occasioni “O sole mio”, è stata suonata come inno nazionale. E’ accaduto nel 1920 alle Olimpiadi di Anversa quando la banda, per celebrare il podista italiano, Frigerio, che si era aggiudicato l’oro, si accorse di avere perduto lo spartito della Marcia reale. Poco male, direttore e musicisti conoscevano a menadito O sole mio, e la vittoria italiana fu celebrata sulle note di Di Capua. Analogo episodio accadde il 28 Luglio 1935 sul circuito di Nurbruging in Germania, dove l’inattesa vittoria di Tazio Nuvolari, alla presenza del Furher, fu celebrata con O sole mio, perché stavolta il disco della marcia reale era andato smarrito.

Appare chiaro che la dimenticanza, lamentata dallo storico impresario – parafrasando Flaiano- non è grave, ma è certamente seria.
Si tratta di una distrazione che tradisce, da parte del ceto politico amministrativo locale, la carenza di adeguato senso storico nella gestione di vicende di cui si ignora la portata culturale. La pubblicazione di O sole mio rappresenta uno spartiacque nella storia della musica, non solo napoletana vista l’eco universale della canzone. Da O sole mio si ufficializza la nascita della canzone d’arte che, fino ad allora, non aveva ancora superato la gestazione di mera espressione popolare.
E’ invece grave, e non certamente serio, il rischio cui è esposta la conservazione dell’immenso patrimonio costituito dalla canzone classica napoletana che va progressivamente dissipandosi. Un genere che, invece, allorquando adeguatamente valorizzato è soprattutto apprezzato dai giovani. A Tokyo esiste il museo della canzone napoletana e qui non c’è. I posteggiatori veri sono scomparsi, Piedigrotta pure, e quando la resuscitano è una volgare imitazione.
Il lamentato oblio dell’evento è l’occasione per ribadire che, su questo decisivo versante, la politica, in Campania, non si è dimostrata capace di costruire un percorso autorevole di investimento. Il ceto dominante locale si ferma alla comoda distribuzione di mance distribuite in base a criteri vassallatico clientelari. Di certo chi ha amministrato in regione la cosa pubblica non ha inteso superare la logica dell’evento, in un contesto nel quale mancano invece accademie per artisti e centri di formazione per autori e interpreti di arti sceniche e musicali. E dove mancano sale di prova, biblioteche di settore, database per la raccolta di contenuti e informazioni divise per materie, centri di assistenza e consulenza per aspiranti, operatori e addetti al settore. Viene da pensare che quello di ridurre in Campania la politica culturale a distribuzione di mance, secondo logiche feudali, è il frutto avvelenato di una sciagurata scelta. E’ inconfutabile il condizionamento che un ceto politico incolto esercita su chi governa festival o istituzioni culturali. Veri e propri feudi amorali, fonti di sperpero, energia e denaro cui, alla generosa compendiosità dell’investimento fa da contraltare l’imbarazzante esiguità dello sbigliettamento. L’Unesco, nel frattempo, ha dichiarato patrimonio immateriale dell’umanità un considerevole numero di opere musicali e balli: sconosciuti canti orientali, danze africane, il flamenco ed il fado, il mariachi messicano e finanche la doina rumena. Nel patrimonio immateriale, riconosciuto per tale e protetto dalla speciale agenzia dell’onu, trovano una collocazione d’onore anche i canti dei cosacchi, la rumba, il merengue ed il canto sardo a tenore.

La canzone classica napoletana, no. Eppure non c’è alcuna altra espressione artistica, a base territoriale, che abbia raggiunto, nella storia contemporanea, tale diffusione per risonanza e gradimento. E non c’è alcuna altra millenaria tradizione artistica che, al pari delle melodie napoletane, si conservi nelle radici della terra e nell’anima di un popolo che, motu proprio, comunque la tramanda. Di O sole mio sarebbe doveroso quest’anno celebrare il giubileo. Resta invece la denuncia del vuoto e del colpevole oblio.
Carmine Ippolito
