Memorandum per i penitenti

Carceri, suicidi e marginalità. Analisi e rimedi per un fenomeno che interroga la coscienza collettiva.

Va dai 30 ai 39 anni l’età prevalente di chi si toglie la vita in quell’inferno che è l’universo penitenziario italiano. Dall’inizio dell’anno sono già in trenta ad avere scelto il carcere come luogo di elezione per mettere in pratica il supremo gesto dettato dalla disperazione.

Se il ritmo tendenziale dei suicidi registrati nel circuito carcerario nei primi quattro mesi del 2024 si confermasse nel resto dell’anno, il 2024 farebbe registrare un drammatico primato negativo.

Vero è che nel 2022, quando a fine anno ne furono 85 (il numero più alto mai registrato finora), si erano registrati 20 suicidi nello stesso arco temporale.

Stando ai dati forniti dall’organizzazione mondiale della sanità, l’Italia è uno dei Paesi dove ci si suicida di meno. Al contrario, se si guardano i dati del 2021 del Consiglio d’Europa, l’Italia è al di sopra della media europea per i suicidi in carcere

 In carcere ci si toglie la vita, infatti, 18 volte in più rispetto alla società esterna.  

Orbene, se quella di togliersi la vita è sempre una tragica scelta privata, le dimensioni che il fenomeno ha assunto nel circuito carcerario interpellano la coscienza collettiva. A nessun operatore del diritto è consentito concedersi ancora il lusso di restare sordo innanzi a quel grido di disperazione che si leva dai luoghi di detenzione vista la frequenza con la quale ivi si susseguono gesti inconsulti.  

E’ un fatto che il tasso di affollamento ufficiale degli istituti penitenziari italiani cresce raggiungendo, a livello nazionale, il 119,3%, e sale al 125% se si considerano i reparti attualmente chiusi o inagibili.

Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute in Italia, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti

L’aumento del tasso di crescita medio è di 331 unità al mese. Continuando con questi ritmi, a fine 2024 si arriverebbe ad oltre 65mila detenuti.

L’analisi delle cause che determinano però le condizioni di grave disagio in cui versa la popolazione carceraria presenta però un quadro più complesso, e di certo non si esaurisce nell’enfatizzazione degli effetti associabili ad un tasso di affollamento abnorme che pure da solo già nega livelli di dignità essenziali incoercibili ai reclusi.

La conoscenza però non è mai un processo inclusivo, fondato unicamente sull’accumulo di dati grezzi. Al contrario la conoscenza impone la selezione, tra le evidenze raccolte, di quelle apprezzabili come più significative con particolare riferimento alle prospettive di chi patisce gli effetti del disagio ed alle aspettative di coloro che invocano un rimedio.

Con specifico riferimento ai ricorrenti gesti autolesionistici dei detenuti, il ricorso alla teoria sociologica impone quindi di riconoscere – come già fece Durkheim nel suo mirabile studio sul suicidio – che, sopra ogni altro fattore, è la mancanza di integrazione una delle causa fondamentali di tale irreparabile gesto.

Se è corretto inquadrare il fenomeno nella sopraindicata prospettiva, occorre riconoscere che molti studi, seppure fondati su dati esaustivi, non si traducono in proposte o soluzioni efficaci.

Occorre, innanzi tutto sgombrare definitivamente il campo da una visione deterministica del tutto distorta: le decisioni estreme ed i gesti disperati dei reclusi non sono in necessario rapporto diretto unicamente con le difficoltà di detenzione.

La condizione di sovraffollamento delle carceri va riconosciuta di certo come concausa, ma nient’affatto quale condizione principale dell’inammissibile disagio suppletivo che ingiustamente risulta inflitto a chi già soffre la forma di per sé più afflittiva di privazione della libertà personale.

Le disfunzioni del sistema giustizia che predispongono al suicidio sono soprattutto altre.

Da uno studio elaborato lo scorso anno proprio dal garante nazionale dei diritti dei detenuti risulta elevata la percentuale ( 50% ) di coloro che si tolgono la vita in prossimità del fine pena. Altrettanto elevata è la percentuale di coloro che, invece, si determinano al suicidio nelle ore o nei giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere ( 62%) in una fase in cui le condizioni di disagio non possono avere ancora reso insostenibile il peso dell’afflizione suppletiva connessa al sovraffollamento delle strutture carcerarie.

In oltre il 15% per cento dei casi, coloro che risultano essersi tolti la vita nelle carceri, risultava affetto da patologie o disturbi delle psiche. E  su 85 detenuti, nel 2022, 39 erano stranieri di cui 20 senza fissa dimora. Figure vulnerabili, fragili in quanto prive di contatti o solidi riferimenti esterni.

Particolarmente significativa è anche la prospettiva della natura dei reati di cui sono gravati i suicidi: nel 54 % dei casi si tratta di persone accusate per reati contro il patrimonio, cui seguono i reati contro la persona ed infine contro la famiglia.

Assente tra i suicidi la percentuale di coloro che sono reclusi in quanto accusati o condannati per reati di criminalità organizzata.

E’ giocoforza trarre la conclusione che l’elemento che accomuna le drammatiche esperienze di coloro che si tolgono la vita in carcere è individuabile, non tanto nella vulnerabilità personale e psichica del recluso suicida, quanto nella marginalità del contesto sociale di cui è il recluso è espressione, nella inadeguatezza dell’ordinamento cui è affidato il giudizio e del sistema penitenziario deputato a provvedere all’eventuale condanna ed al possibile reinserimento del reo.

Per rompere l’isolamento è prioritario, diversamente da quanto fino ad oggi accaduto, affrontare gli interrogativi che riguardano il livello di adeguata tutela legale di cui i detenuti, riconoscibili come socialmente fragili, si sentono privati. Vero è che il numero di coloro che, senza fissa dimora, per pene di durata brevissima, sono attualmente detenuti nelle carceri italiane, è elevatissimo. Stando ai dati più recenti sono oltre quattromila i condannati che, allorquando fossero nella condizione di beneficiare di livelli di assistenza legale adeguata – e di uffici di sorveglianza efficienti – potrebbero essere ammessi a misure alternative alla detenzione.

 Pur nel sempre toccante profluvio di enunciazioni del “carcere come misure estrema”, resta inesorabile l’irrogazione, in via esclusiva, di pene detentive e l’ideologico rifiuto, praticato dai tribunali di merito, ad applicare le sanzioni sostitutive per le detentive brevi  di cui  la Riforma Cartabia ha invece con nettezza inteso incentivare l’impiego, anche per deflazionare il carico che schiaccia gli inadeguati organici degli uffici di sorveglianza.   

Restringere la platea delle persone detenute in carcere non è soltanto necessario, è anche possibile, ragionevole e giusto.

Un sistema che costringe negli istituti di pena persone condannate per alcuni mesi e per reati di scarso allarme sociale tradisce come la finalità rieducativa della pena sia un vuoto proclama cui i primi a non credere sono proprio gli appartenenti all’ordine giudiziario.

Il dato dei reclusi per pene detentive brevi tradisce infatti la minorità sociale di cui è espressione la popolazione carceraria e la condizione di marginalità cui i processi di globalizzazione tecno liberista relegano tali infelici.

Costoro, in quanto privi di strutture esterne di riferimento, patiscono la mancanza, sopra ogni altro bene, di assistenza legale adeguata, piuttosto che di scarsamente significativa “ mediazione sociale”.

Rimedi per i penitenti:

  1. applicazione delle sanzioni sostitutive per le pene detentive brevi, come già previste dal codice di diritto penale vigente superando le prassi applicative che ne respingono l’applicazione, sulla base di una interpretazione costituzionalmente antagonista alle finalità rieducative della pena.
  2. restringere il catalogo dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di carcerazione, all’ammissione alle misure alternative ed alle sanzioni sostitutive alle pene detentive brevi, restringendone le preclusioni  ai soli reati di eversione dell’ordine costituzionale e di associazione mafiosa o camorristica;
  3. escludere l’obbligatorietà del mandato speciale ad impugnare le sentenze di condanna e l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti da parte dei difensori;
  4. Implementare nelle spese di bilancio i fondi destinati al patrocinio a spese delle stato a beneficio dei non abbienti istituendo un fondo di anticipazione per gli avvocati ammessi.       

Carmine Ippolito

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