Sottomissione digitale e vulnerabilità politica

Karim Ahmad khan

Il processo di transizione digitale ha un costo elevato.  La
digitalizzazione implica, infatti, che il funzionamento degli stati,
ed il conseguente esercizio dei diritti, avvenga mediante il necessario ricorso all’uso di
dispositivi e canali telematici.

 L’ accelerazione impressa al processo di informatizzazione,
avvenuta in uno stato di euforia collettiva, ha impedito
finora di metterne a fuoco le ricadute negative sulla vita delle democrazie e sull’esercizio delle libertà fondamentali.

Non si è prestata la necessaria attenzione agli effetti derivanti
dalla concentrazione dei servizi cloud infrastrutturali presso un
ristrettissimo numero di piattaforme statunitensi ( Amazon, Microsoft e
google).

La zelante adesione ai piani di transizione digitale è avvenuta senza
adeguatamente considerare la sostanziale incapacità delle istituzioni democratiche di controllare, gestire e proteggere, con la continuità necessaria, le
proprie risorse digitali, intese come dati, infrastrutture,
tecnologie e servizi, per gli Stati che non dispongono di autonome piattaforme.

Nei primi mesi del 2025, si è verificato un episodio, passato quasi sotto silenzio, che illustra con
chiarezza come la dipendenza europea dalle piattaforme digitali
statunitensi possa trasformarsi in vulnerabilità geopolitica.

A metà Febbraio Microsoft ha disattivato l’account di posta
istituzionale del procuratore capo della Corte penale internazionale,
Karim Ahmad Khan, privando la CPI di una canale di comunicazione
fondamentale.

La disattivazione è stata disposta in esecuzione dell’Ordine Esecutivo
14203 “Imposing Sanctions on the International Criminal Court”,
firmato il 6 febbraio 2025 dalla Casa Bianca.

L’atto presidenziale con il quale, dalla studio ovale, è stato
disattivato, d’imperio, l’account della Corte dell’Aia, è stato emesso
sulla base dell’ International Emergency Economic Powers Act. È stata
così unilateralmente irrogata, in relazione ai procedimenti in corso per crimini di
guerra relativi alle indagini sul genocidio in corso a Gaza, una
sanzione nei confronti del procuratore della CPI dagli effetti
mutilanti ed immediatamente esecutivi.

La disattivazione immediata si è resa possibile stante la
concentrazione in mano statunitense delle infrastrutture digitali cui
è necessario fare ricorso, su scala globale, per informatizzare ogni
anfratto della vita civile e dell’esistenza personale e collettiva.

Non desta meraviglia che la vicenda, sebbene gravissima, non ha ricevuto dalla stampa il
risalto che avrebbe meritato, e neppure ha destato discussioni o polemiche.

Eppure si trattava di questione gravissima, implicando l’interruzione, arbitrariamente decisa dall’ amministrazione americana,
del servizio di un ufficio giudiziario sovranazionale che è stato, con
un click, privato temporaneamente di un canale di comunicazione essenziale.
La disattivazione dell’ account della Corte competente a giudicare sui crimini di guerra , ha rappresentato un eloquente messaggio trasversale a governi e imprese di ogni continente affinché risultasse universalmente chiaro che
provvedimento amministrativo statunitense può istantaneamente minare la tenuta dello Stato
di diritto interno e internazionale.

Occorre allora riconoscere che siamo precipitati nella illuminata era della sottomissione digitale, dove l’Europa versa in
una condizione tecnologica di assoluta irrilevanza.

In sostanza, affidando il funzionamento di istituzioni e servizi alle
infrastrutture digitali statunitensi , l’Europa si è stretta da sola la corda al
collo. Non ci sono, allo stato, alternative . Allorquando Amazon, Microsoft,
Google, anche per ordine esecutivo della Casa bianca, decidessero di
staccare la spina ( per ragioni politiche, economiche, strategiche o
anche solo di business) ci ritroveremmo con server spenti, dati
bloccati e apparati, servizi e istituzioni paralizzati.

E dire che il continente paga già ogni anno un salatissimo pedaggio di
250 miliardi di euro per usare le autostrade digitali di Amazon,
Google e microsoft. Ed i prezzi dei servizi cloud, come
ciascuno può constatare, aumentano vertiginosamente ogni anno,
generando un fenomeno già noto come techflazione. E non è possibile non
pagare quanto ogni anno ci viene estorto, in termini di aumenti sulle
tariffe sui servizi digitali, derivandone, in caso contrario, il
mancato esercizio dei diritti e delle attività fondamentali che oggi
presuppongono l’obbligatorio impiego delle piattaforme digitali.

L’unica alternativa sarebbe quella di affidarsi alle piattaforme
cinesi, cadendo così dalla padella alla brace, viste le prevedibili pesanti
ricadute,in termini di censura, che ne conseguirebbero all’istante.

L’Europa si illude di risolvere la questione sempre mediante la
scrittura di regole, perché nella produzione legislativa siamo
maestri. Peccato che senza mettere mano ai giganteschi investimenti necessari a
realizzare server, chip, cavi sottomarini e data center  autonomi,
ogni soluzione per uscire dalla condizione di sudditanza tecnologica è del tutto illusoria.

Microsoft ha celebrato i 4 mila miliardi di capitalizzazione, mentre
l’Ue ha previsto nella bozza di bilancio 2028 – 2032 la costituzione
di un fondo di 50 miliardi per l’innovazione.

Avendo intrapreso, a tappe forzate, il processo di digitalizzazione
della vita civile, l’Europa deve riconoscere che  la sfida di sistema
si gioca sul piano della capacità di archiviare, conservare e
processare i dati che fanno funzionare ospedali, uffici, questure,
impianti, caserme, aziende, insomma interi stati. E’ urgente sottrarsi
allo strangolamento di una moderna forma di colonizzazione
algoritmica, pericolosa perché tanto letale, quanto seducente e
silenziosa.

Carmine Ippolito

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