La guerra commerciale su scala mondiale è esplosa. Meglio tardi che
mai. Era ora che nell’emisfero occidentale, progressivamente
deindustrializzato, quello delle cosiddette democrazie liberali,
qualcuno si decidesse a rompere gli indugi. Bene, nell’interesse di tutti,
che lo abbia fatto l’amministrazione americana. Senza esitare, a
poche settimane dall’insediamento, la strana coppia, Trump – Vance, ha
introdotto un regime tariffario sulle importazioni volto ad arginare il
deficit della bilancia commerciale e, soprattutto, idoneo a
determinare la ripresa del processo di reindustrializzazione del
paese. Vero è che, negli ultimi trent’anni, il vitalismo economico dei
paesi ad alto reddito, in ragione del gigantesco processo di
delocalizzazione della produzione industriale, si è andato
progressivamente spegnendo. E’ da quando la Cina è diventata membro
dell’organizzazione mondiale del commercio che gli indici di
produzione industriale consacrano, nelle nazioni occidentali, il
crollo e la progressiva erosione del comparto manifatturiero. Ne sono
derivate costanti ricadute negative sul piano dell’occupazione, della
domanda interna e della produzione di ricchezza per le nazioni che
paradossalmente si autodefinivano come paesi maggiormente
industrializzati. Le misure di natura protezionistica, energicamente
introdotte dall’amministrazione Trump, prima di ogni altra cosa,
determinano, invece, ricadute generalizzate sui mercati finanziari
perché idonee a stravolgere l’ordine globale e macroeconomico
affermatosi a partire dalla stipula del trattato istitutivo
dell’Organizzazione mondiale del commercio, firmato a Marrakech il
15.04.1994 e, successivamente, consolidatosi con l’ingresso della Cina
nel WTO l’ 11 dicembre 2001.

I fenomeni di ritorno che si sono innescati, per effetto
dell’assimilazione nel medesimo ordine economico
internazionale delineato dal WTO, di democrazie mature e liberali e
sistemi totalitari, autocratici e non socialmente progrediti, erano
prevedibili. E da tanti, come chi vi scrive, erano stati preconizzati. Eccone una
sintetica selezione: 1) si era detto: “ l’occidente esporterà
ricchezza ed importerà poverta”. Ed è accaduto!; 2) si era aggiunto
che “i salari occidentali” sarebbero entrati, al ribasso, in
concorrenza con i “
salari orientali” senza che gli operai orientali debbano immigrare e
venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Ed è accaduto che i capitali
occidentali si sono trasferiti laddove i salari erano più bassi,
direttamente o indirettamente finanziando le fabbriche orientali. La
convenienza ad investire dove la manodopera costa di meno ha
innescato, tra i proletari di tutto il mondo, la concorrenza
salariale al ribasso; 3) i salari occidentali si sono livellati
al ribasso, appiattendosi sui salari orientali, nel mentre il costo
della vita, come previsto,. è rimasto saldamente attestato agli alti standard
occidentali di talché lo “spettro della povertà” si è progressivamente
diffuso e materializzato nell’Occidente della decrescita infelice; 4)
gli stati occidentali, come membri degli organismi sovranazionali, ed
in particolare dell’ Unione europea e dell’Organizzazione mondiale del
commercio, fondate sul dogmatico pilastro del libero scambio,
hanno supinamente assistito alla contestuale demolizione del
proprio sistema di produzione e dello stato sociale;
Ed ora che il fantasma della povertà in occidente si è
materializzato comincia a fare paura non solo nelle famiglie e nelle
periferie che votano AFD in Germania, Georgescu in Romania e i
lepenisti in Francia, ma soprattutto alla grande finanza speculativa
ed alle elite della robotica e della tecnologia digitale.

Risponde, invece, a logiche di senso comune e si prefigge scopi di
salvaguardia la tanto vituperata introduzione dei dazi: sono barriere
artificiali
che possono applicarsi per limitare flussi commerciali provenienti da
altri territori. Sono misure di protezione e costituiscono una
concreta opportunità di ripresa della produzione agricola e
industriale se le tariffe doganali vengono praticate per arginare
importazioni di beni o prodotti provenienti da paesi che
commercializzano prodotti sottocosto, sfruttando in forma disumana la
manodopera, violando le regole di sanità o sicurezza dei beni nei
cicli di produzione, oppure sfruttando
asimmetriche economie di scala. I dazi alle importazioni di beni
provenienti dai paesi dove la manodopera lavora in condizioni di
sfruttamento, favoriscono il rispetto della dignità del lavoro perché
incentivano le assunzioni e l’innalzamento dei livelli salariali,
imponendo alle multinazionali di avviare stabilimenti produttivi
direttamente nei paesi in cui intendono commercializzare i loro
prodotti. La guerra commerciale dei dazi e’ una guerra giusta. E’
sbagliato il nemico: piuttosto che con gli stati uniti, andrebbe
ingaggiata con le tigri asiatiche: con la Cina di Xi jimping, con il
vietnam di Pham Minh Chin o l’India di Modi.
Carmine Ippolito
