“stato e società senza sussidio”
Si susseguono mobilitazioni per chiedere il ripristino del reddito di cittadinanza. Non è vero che la misura, introdotta nel 2018 come la panacea contro la povertà, sia stata abolita d’un tratto, con un sms. L’abolizione del reddito era nel programma dei partiti di governo che hanno conseguito ampio mandato per realizzarla. Ed è stata disposta sin dal dicembre 2022 con regolare approvazione della legge di bilancio, e decorrenza dal Gennaio 2024. Il Parlamento però aveva, nel frattempo, già provveduto ad apportare modifiche in senso restrittivo alla disciplina del reddito di cittadinanza anche per l’anno 2023 prevedendo, tra l’altro, che fosse limitato a sette mensilità la decadenza dal beneficio qualora uno dei familiari non accetti la prima offerta di lavoro.
L’abrogazione del reddito di cittadinanza determinerà, secondo alcuni, il rilancio dell’economia e la ripresa dell’occupazione, secondo altri l’aumento della povertà ed una spirale di furti, rapine ed illeciti predatori.
L’approccio alla questione non è corretto se prima non si risponde correttamente ad alcuni quesiti di base: qual è l’effettiva natura del reddito di cittadinanza e la matrice ideologica che lo ispira? E quale idea di stato e società presuppone il ricorso al sussidio di sopravvivenza?
Il reddito di cittadinanza non è un rimedio alla povertà, bensì il portato di una idea di stato e di un modello di società fondati sul deperimento dei legami comunitari.
Alla base della concezione di stato che da diversi decenni si è andata affermando in occidente è rinvenibile una corrente di pensiero che influenza le politiche pubbliche, ridisegnando il profilo della società.
La progressiva metamorfosi sociale e istituzionale risulta ispirata, sul piano dei principi, al binomio europeismo liberismo. E l’europeismo, concetto retoricamente evocato con spossante insistenza, non è altro che la figurazione in chiave romantica di una concezione di governo di matrice iperliberista.
Il fondamento cardine del trattato costitutivo UE impone, infatti, il “divieto degli aiuti di stato alle aziende nazionali”. Tale fondante criterio di governo della società, imposto agli stati membri, si traduce nella negazione di scelte economiche che vedono nella partecipazione statale e nell’economia mista la via da seguire.
E così lo Stato, ritirandosi dall’arena economica, progressivamente arretra il suo ruolo sociale, rinunciando ad ogni vocazione interventista in economia.
Un tale modello di società – fondato sul disimpegno dello stato rispetto all’economia – giocoforza retrocede il lavoro di molte posizioni nella scala dei beni ritenuti meritevoli di tutela.
La cura dimagrante dello stato interventista e assistenziale ha imposto il ricorso, allora, a serie contromisure nei confronti delle pecorelle smarrite: la società postindustriale non può prescindere dalle questioni afferenti le condizioni di vita degli esclusi, ossia di coloro che vengono espulsi dai processi produttivi e da un mercato del lavoro che ha sempre meno bisogno di manodopera.
Era prevedibile che declino dello stato economico, diminuzione dello stato sociale, digitalizzazione, robotizzazione del lavoro e delocalizzazione della produzione nei paesi a manodopera a basso costo, avrebbero “escluso” enormi masse di ex dipendenti. Realizzando un coktail esplosivo che incombe costantemente sulla pace sociale, minacciandone la tenuta. Il modello di società che ne deriva esige, per il suo equilibrio, uno strumento preventivo di anestetizzazione sociale: ed ecco un sussidio agli esclusi che, con un’espressione eufemistica ossia attenuata, è stato sapientemente definito reddito di cittadinanza, piuttosto che “reddito senza lavoro”.
Il reddito di cittadinanza non è una misura di progresso sociale, ma l’esatto contrario del suo significato apparente. Presuppone un modello antisociale che, spinto alle conseguenze ultime, si articola su di una minoranza di quelli che lavorano , ed il resto, uomini privati di dignità sociale, che vivono di assistenza ricavata dalle risorse generate dai primi.

I cinque stelle, allorquando ne hanno caldeggiato l’introduzione nel nostro ordinamento, si sono ispirati alle idee di pensatori di dichiarata matrice ultraliberista.
Furono gli ultraliberisti Hayek, Mises, Friedmann, mica Marx ed Engels, a teorizzare, sin dagli anni 80, un reddito garantito per tutti. Un anestetizzante sociale che avrebbe permesso a enormi masse di disoccupati di sopravvivere, ma giammai di veramente vivere.
Dai pensatori ultraliberisti giammai sono state auspicate, quali rimedi alla marginalizzazione dei lavoratori, la riduzione degli orari di lavoro ed il rilancio delle grandi opere ed infrastrutture. Basti immaginare i posti di lavoro che si potrebbero creare al Sud con il risanamento del suolo e delle periferie. Il lavoro, però, è comunque un’esperienza di aggregazione idonea a generare forme di resistenza popolare, pericolose per un ceto dominante che non riesce più a dissimulare la sua reale matrice usurocratica.
Il reddito senza lavoro produce, invece, il suddito ideale: un individuo vulnerabile, isolato e senza difese.
L’abrogazione del reddito di cittadinanza pertanto costituisce un elemento destabilizzante di tale equilibrio su cui regge la tenuta sociale di una società plasmata sul dogma liberista.
Vero è anche che, grazie alle nuove tecnologie si producono sempre più beni e servizi, con sempre minore necessità di mano d’opera. Quello che si chiama aumento della produttività fa della disoccupazione e precarietà un dato costante e strutturale.
Tali fattori favoriscono tutti la logica del capitale, che si serve della disoccupazione strutturale per ridurre il potere della negoziazione dei salari, visto che digitalizzazione, robotizzazione e delocalizzazione rendono il lavoratore non più solo sfruttato ma addirittura inutile.
Se il reddito di cittadinanza non è altro che il perfezionamento della concezione di stato e di società prefigurata dalla ideologia liberista, la sua abrogazione presuppone una conseguente decisa sterzata ideologica: occorre recuperare una visione politica comunitaria per rifondare un modello di società che possa prescindere da meccanismi di anestetizzazione sociale che ne garantiscano la coesione.
Di fronte ad un mondo globalmente sempre più ricco, ma con sempre più poveri, l’alternativa a modelli di sviluppo che generano esclusi si costruisce relegando l’economia al servizio dell’uomo e accordando priorità ai bisogni reali delle persone. Abolire il sussidio di stato agli esclusi da un mercato del lavoro che li respinge, fonda sulla presa di coscienza che un intero sistema di sviluppo economico va drasticamente revisionato, a partire dall’introduzione di una tassa sui movimenti di capitali, interni ed internazionali cui deve seguire l’annullamento del debito dei paesi in via di sviluppo e la nazionalizzazione delle loro risorse. La costruzione di una società alternativa a quella disegnata dal primato dell’economia e dalla tirannia del mercato richiede: 1) rottura del sistema di divisione internazionale del lavoro; 2) priorità alla creazione di condizione di autosufficienza e autodeterminzione del mercato interno; 3) emancipazione economica dai diktat Banca Mondiale, FMI e BCE; 4) adozione di regole condivise per inquadrare scambi internazionali.

Non è necessario, in definitiva, negare il mercato, ma occorre finalmente riconoscere quel che è evidente: ossia che il mercato, se lasciato libero, non è idoneo a determinare la ripartizione equa delle risorse. Ed occorre ripartire da un diverso paradigma culturale comunitario stando al quale progresso tecnologico e digitalizzazione vanno governati dallo stato e non acriticamente subiti dalla società.
Carmine Ippolito
